TRENTO Non si affida ciecamente ai sondaggi, spesso elevati al verbo di Delfi. Sergio Fabbrini suggerisce prudenza, in virtù di un sistema elettorale al suo primo debutto il 4 marzo. «Saranno le candidature uninominali a stabilire i reali rapporti di forza», spiega il docente di Scienze politiche, già direttore della Scuola di studi internazionali di Trento. Altrettanto cauta è l’analisi circa le modalità di presentazione delle liste.M. Damaggio, "Corriere del Trentino", 1 febbraio 2018
A chi stigmatizza eccessivo verticismo, specie nel Pd, Fabbrini ricorda prassi diffuse «sin dalla Prima Repubblica». Piuttosto a diffondersi è «una progressiva personalizzazione della leadership», persino tra le fila di chi ha contestato aspramente «l’uomo solo al comando».
Professore, i partiti fanno i conti con i sondaggi e si presenta persino l’ipotesi di una vittoria a tre: centrodestra come prima coalizione, Movimento cinque stelle come partito con più voti e Pd forza politica con più parlamentari. È realistico lo stallo?
«La mia impressione è che tutti i sondaggi siano parziali per diverse ragioni. Innanzitutto non conosciamo il sistema elettorale e la logica è incerta, poi il comportamento elettorale dipenderà da come verranno recepite le candidature uninominali. Sono quindi prudente e, piuttosto, andrebbero evidenziati tre aspetti d’ordine generale».
Quali?
«Il primo riguarda la formazione delle liste: questa fase è stata drammatizzata, ma è inevitabile e comune persino alle formazioni delle liste nella Prima Repubblica che avvengano conflitti, accuse e dispiaceri. Da questo punto di vista non vedo grandi differenze con il passato. Il secondo aspetto da rilevare riguarda il Movimento cinque stelle: nel corso della campagna elettorale si è trasformato con grande velocità; la retorica populista dell’“uno vale uno” è stata sostituita dalla ricerca affannosa di candidati che potessero rappresentare competenze civili e professionali. C’è quindi una radicale trasformazione che testimonia la necessità, dei partiti che vogliono avere un ruolo come forze di governo, di cambiare e istituzionalizzarsi. La terza osservazione riguarda la progressiva personalizzazione della leadership nei partiti che finora avevano condotto una campagna proprio contro la personalizzazione».
Quindi una sorta di capovolgimento?
«La campagna contro Renzi si è rovesciata nel suo opposto. Oggi il Pd è l’unico che non ha il nome del leader nel suo simbolo, a differenza di Leu, Forza Italia, Lega. È singolare tale utilizzo strumentale del conflitto contro l’uomo solo al comando, che vale quando si guarda agli altri partiti ma non vale per sé stessi. Anche i Cinque stelle hanno bisogno di un capo, Luigi Di Maio, che sceglie i candidati sulla base di sue valutazioni personali, poco trasparenti».
A far deflagrare i malumori interni è stato principalmente il Pd. O meglio: le scelte di Renzi. Eccessivo leaderismo o, anche qui, fisiologico decisionismo?
«I leader si stanno muovendo tra due pressioni contraddittorie: da un lato c’è un’opinione pubblica che inveisce contro un parlamento di trasformisti, chiedendo gruppi stabili. I partiti cercano così di controllare la selezione per rafforzare la lealtà. Dall’altro lato, però, l’opinione pubblica dice che la selezione è poco democratica. Le richieste sono quindi contraddittorie e non se ne esce, se non attraverso processi di democrazia interna nei partiti: dibattiti seguiti da decisioni prese a maggioranza, a cui si dovrebbe essere fedeli. Invece spesso una minoranza che non si riconosce nella maggioranza minaccia di uscire; si parla di tirannia della maggioranza ma c’è anche quella delle minoranze. Nel caso specifico del Pd, semmai è una questione di scelte che forse potevano essere diverse, penso alla candidatura di Maria Elena Boschi».
Il collegio di Bolzano è stato un azzardo?
«Dopo il referendum non era utile, per lei, entrare nel governo Gentiloni. Avrebbe dovuto rimanere in parlamento e poi affrontare la battaglia nel collegio di Arezzo. Tutte le vicende delle banche di cui s’è parlato nascono perché legittimamente faceva gli interessi della sua città e per questo doveva tornare lì, per spiegarlo ai cittadini. Meglio perdere con dignità che vincere con ambiguità».
Non ci sono state deroghe per Giorgio Tonini, crede abbia pesato il mantra del ricambio?
«No. Tonini non ha chiesto la deroga e ha spiegato perché ritiene sia opportuno il ricambio. È stato uno dei più autorevoli senatori ed è una risorsa che il Trentino e l’Alto Adige non devono perdere».
In compenso in Valsugana ci sarà Lorenzo Dellai che nel territorio più ostile sfida Fugatti e Fraccaro.
«Dellai è uomo di esperienza e una persona come lui è indispensabile per collegare il Trentino con la politica del Paese. È bene che gli elettori tengano presente che le Autonomie saranno tanto più forti quanto saranno rappresentate».
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