Qualità del lavoro, modello di sviluppo socialmente sostenibile e sistema di welfare partecipativo: il Trentino dell'Autonomia può fare la differenza

Tra i risultati ascrivibili all’azione del Governo provinciale di questa legislatura ve ne sono alcuni mediamente sottovalutati forse perché scarsamente produttivi dal punto di vista mediatico o perché considerati poco spendibili dal punto di vista della creazione di un consenso a breve. In un tempo dominato infatti dal “tutto e subito”, e caratterizzato da una sorta di bulimia del pragmatismo, prevale la tentazione di misurare l’impatto delle scelte sul gradimento sociale attraverso il termometro dei clic e dei like.
Alessandro Olivi, 10 gennaio 2018


D’altra parte accarezzare il consenso da un lato e agitare le paure dall’altro rappresentano la faccia della stessa medaglia: dare risposte frettolose e semplificatorie a problemi complessi.
L’Autonomia trentina, anche grazie a un proficuo rapporto con il Governo Nazionale, esce da questi anni rafforzata in materia di finanza pubblica, di governo del territorio e dei suoi beni comuni e con maggiori competenze nella gestione di infrastrutture cruciali per lo sviluppo.
C’è però anche un altro campo in cui sono state aperte strade nuove che se percorse in futuro con convinzione sono destinate a incidere sul capitale identitario della Comunità.
È il campo dell’innovazione sociale, che non è meno importante di quella economica, tecnologica o istituzionale. Un Trentino infatti che non sia teso al miglioramento costante dei suoi processi di coesione sociale, di equità, di integrazione e di promozione dei diritti di cittadinanza, non assolve al compito di costruire un’Autonomia responsabile ed inclusiva.
Le parole forti e limpide dell’Arcivescovo Tisi sulla povertà, pubblicate nei giorni scorsi, rappresentano un monito e una scossa, perché è vero, è tremendamente vero, che non c’è dignità senza lavoro, ma soprattutto non c’è uguaglianza se non liberando le persone più deboli dalle privazioni materiali. Ed ecco allora che come non abbiamo ceduto alla retorica del pessimismo e della rassegnazione quando tutto sembrava andar male sotto i colpi di una crisi durissima oggi non dobbiamo attenuare né l’impegno né la spinta riformatrice in campo sociale solo dinanzi ai segni “più” che caratterizzano i dati economici generali.
Questo anche perché le statistiche e i numeri spesso non danno rappresentanza alle nuove esclusioni e alle fratture presenti in una società sempre più frammentata.
Muovendo da questi presupposti, abbiamo iniziato il lavoro di questi anni proponendo alle parti economiche e sociali di sottoscrivere insieme alla Provincia un “Patto per lo Sviluppo e il Lavoro”. Un passaggio non formale per ribadire l’indissolubile reciprocità tra la necessità di imprimere più qualità e dinamismo al tessuto produttivo locale da un lato e l’investimento prioritario sulle politiche per l’occupazione dall’altro.
Un impianto generale che si è poi declinato in azioni coerenti e concrete, magari poco rumorose ed eclatanti, ma che oggi possono rappresentare anche un possibile modello di riferimento per attuare una matura sussidiarietà tra lo Stato e le Comunità locali.
Il nostro Fondo di Solidarietà territoriale previsto con apposita norma nel Jobs Act e che ad oggi ha accumulato una provvista di circa 6 milioni di euro, rappresenta l’unico esempio in Italia di una compartecipazione tra datori di lavoro e dipendenti di natura intercategoriale e non corporativa che consentirà di promuovere misure dedicate alla specificità del tessuto delle piccole imprese in materia della continuità occupazionale e delle politiche attive.
Attraverso il reddito di attivazione recentemente riformato, vogliamo creare le condizioni affinché i disoccupati possano contare su una rete di servizi pubblico-privati capace di migliorare concretamente le opportunità della ricollocazione nel mercato del lavoro andando oltre il sistema puramente passivo degli storici ammortizzatori sociali.
Con il piano di politica del lavoro sono state rafforzate le azioni per favorire l’occupazione dei giovani e delle donne, per migliorare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro anche attraverso la filiera della formazione, per garantire la conciliazione tra lavoro e famiglia.
È stata riformata la disciplina dei lavori socialmente utili aumentando le opportunità lavorative per i disoccupati deboli senza aggravio per la finanza pubblica provinciale.
Spesso, o quasi sempre verrebbe da dire, abbiamo saputo anticipare alcune scelte del governo nazionale, proponendoci come un territorio che attua un riformismo dal basso.
Mi riferisco e non da ultimo all’introduzione dell’Assegno Unico Provinciale il quale rispetto al Reddito di Inclusione statale garantisce maggiore universalità ed equità coinvolgendo una platea più vasta di beneficiari (oltre trentamila da ottobre a dicembre), è ispirato a programmi concreti e verificabili di reinserimento lavorativo e abilitazione sociale ed è fortemente incentrato sui bisogni delle famiglie con figli. 
Molte ancora sono le cose da fare. Ma è sulla qualità del lavoro, su un modello di sviluppo socialmente sostenibile e su un sistema di welfare partecipativo che il Trentino dell’Autonomia può e deve fare la differenza.