È facile prevedere che l'incombente campagna elettorale proporrà il confronto-scontro, con il chiaro rischio di deviazioni propagandistiche, sulle diverse soluzioni proposte per garantire forme di sostegno al reddito delle fasce più deboli della popolazione. Reddito di cittadinanza o di inclusione attiva che dir si voglia la questione non è lessicale e neppure di mera letteratura.
A. Olivi, 12 giugno 2017
Costruire un sistema di protezione sociale che riduca le disuguaglianze determinate dagli effetti distorsivi della globalizzazione è una priorità per la politica di questo tempo. Introdurre misure strutturali e non episodiche di contrasto alla povertà è cosa ben diversa però dal creare un nuovo livello di mero assistenzialismo passivo. Su questo punto ha scritto nei giorni scorsi parole condivisibili il direttore Giovanetti. Soprattutto c'è un discrimine sostanziale e politico tra distinti paradigmi valoriali entro cui compiere le scelte.
Prevedere un reddito minimo per coloro che versano in condizioni di marginalità cristallizzando e stratificando così il loro status di «bisognosi» è una via. Promuovere invece misure finalizzate a liberare le persone dal bisogno un'altra. E' uno di quei campi in cui sinistra e destra non sono la stessa cosa. Ancora una volta le parole più illuminanti, nel loro significato autenticamente «progressista», sono state quelle pronunciate dal Papa nei giorni scorsi quando ci ha ricordato che è il lavoro la vera priorità, il mezzo per il riscatto sociale, la promozione della dignità umana prima ancora che una sorgente di reddito. Qualsiasi forma di sostegno al reddito deve infatti essere accompagnata da un programma di promozione dell'occupazione. E quest'ultima non cresce perché sospinta dal dirigismo pubblico ma da una politica economica che rimetta al centro gli investimenti, la ricerca e la formazione unitamente a politiche fiscali che riducano il costo del lavoro.
Azioni invece disgiunte da un vero piano per la crescita qualitativa di un'economia socialmente inclusiva rischiano addirittura di generare in prospettiva un abbassamento delle tutele sociali. Forme di reddito minimo garantito sganciate da una politica di sviluppo potrebbero diventare anzi il polo di gravitazione di salari sempre più bassi e di un'ulteriore precarizzazione del lavoro. L'introduzione di un sistema di protezione sociale universalistico deve pertanto essere una parte di un modello di welfare attivo, ossia indirizzato a sviluppare la partecipazione e la responsabilità individuale in sinergia con l'intervento pubblico, valorizzando l'impegno dei cittadini di contribuire all'uscita dalle condizioni di difficoltà.
Non è un caso che in altri Paesi il reddito di base è stato utilizzato quale ammortizzatore sociale in tempi di sostanziale stabile occupazione, quando il gettito fiscale è alto, la graduazione delle imposte progressiva, le risorse a disposizione della finanza pubblica stabili. Un riformismo maturo deve prevedere soluzioni strutturali che producano una vera e propria mobilità sociale, rivolgendo l'attenzione soprattutto a coloro che sono più vulnerabili ed esposti ai guasti provocati dal primato della speculazione finanziaria sull'economia reale. Il reddito minimo non è quindi un "fantasma che si aggira per l'Europa" ma un mezzo per garantire soprattutto democrazia, inclusione, emancipazione sociale. Ancora una volta il Trentino ha compiuto scelte anticipatrici rispetto al resto del Paese e per certi versi più avanzate anche prendendo a riferimento alcune delle pratiche vigenti in Europa.
Il nostro sistema di lavori socialmente utili non è assistenziale e parassitario ma costituisce una forma di restituzione alla collettività di lavoro vero, che valorizza il patrimonio dei beni comuni. In questo momento circa quattromila donne e uomini sono impegnati nella manutenzione del patrimonio pubblico, nei musei, nelle case di riposo e altro ancora. Il reddito di garanzia ha costituito la prima esperienza in Italia di una misura stabile di contrasto alla povertà vincolato condizionalmente all'impegno del percettore di attivarsi per la ricerca di un posto di lavoro.
La platea dei nostri ammortizzatori ha promosso un modello capace di coinvolgere le parti sociali ma soprattutto è legato sempre più a politiche attive volte a promuovere, attraverso azioni mirate, la ricollocazione di coloro che perdono il lavoro unendo occupabilità individuale e dinamicità del mercato del lavoro. Ma non possiamo fermarci ed infatti non ci fermiamo. Il prossimo passo sarà l'introduzione dell'Assegno Unico Provinciale. Un nuovo avanzamento di un sistema di welfare territoriale incentrato su obiettivi di maggiore equità, efficienza, miglioramento delle condizioni dei cittadini e delle famiglie più fragili ma anche di effettiva promozione dei processi di incremento demografico. Aumenteranno le risorse destinate alle famiglie con figli. Per completare infine la costruzione di un welfare che sia davvero generativo è urgente affrontare una questione ancora in gran parte inevasa quale quella della valorizzazione del lavoro femminile, oggi più che mai necessario per migliorare la produttività e l'efficienza del sistema economico, oltre alla qualità dei processi di coesione sociale. Anche in questo caso non si tratta di distribuire "oboli caritatevoli" ma di creare opportunità rimuovendo barriere. In questo caso quella che ancora c'è tra tutela del lavoro e la promozione della famiglia.
C'è bisogno di un forte investimento nell'innovazione sociale quale mezzo per elevare il benessere collettivo ma anche, questa è la vera sfida, la competitività del sistema Paese. L'Autonomia trentina su questo terreno può e deve essere laboratorio virtuoso.