Il 4 dicembre i cittadini italiani decideranno con il loro voto se approvare o respingere il testo di riforma della Costituzione approvato dal Parlamento. Se vinceranno i “Sì” il nuovo ordinamento entrerà in vigore, se prevarranno i “No” rimarrà in vigore quello attuale.
Michele Nicoletti - Emanuele Curzel, "Il Margine", ottobre 2016
La decisione – così importante perché nel referendum i cittadini esercitano un “potere costituente” – verte su questo. Tutto il resto – governo o non governo, simpatie o antipatie personali – è davvero secondario. Se la riforma entrerà in vigore, varrà negli anni a venire indipendentemente da chi la ha proposta o avversata. Le istituzioni si modificheranno conformemente a quel testo e non alla volontà di questo o quel politico. La Corte Costituzionale dovrà giudicare sulla base di quanto scritto e non di questa o quella – pur rilevante nell’immediato – polemica politica. Cruciale è dunque capire se la riforma nei suoi concreti contenuti sia migliorativa o peggiorativa della situazione attuale, non quello che accade al governo in carica o a questa o a quella personalità politica. Votare per rabbia, per dispetto, o viceversa per simpatia o per affetto, per far fuori questo o sostenere quello non c’entra niente con un referendum costituzionale: non si elegge o non si abbatte nessuno. Si conferma o si rigetta un ordinamento e a nulla varrà il giorno dopo dire “ah, ma io col mio sì o col mio no volevo dire un’altra cosa”.
Lo stato delle nostre istituzioni è insoddisfacente
Che la situazione attuale delle nostre istituzioni fosse una situazione ampiamente insoddisfacente pareva giudizio consolidato fino a questa campagna elettorale. La ricerca storica ha ampiamente messo in luce come già in sede di Assemblea Costituente l’assetto bicamerale paritario venisse adottato non per convinzione della bontà del modello (praticamente un unicum sul suolo europeo) ma per la necessità di trovare un compromesso politico. Il concreto funzionamento di questo modello nella storia successiva della Repubblica italiana ne ha mostrato via via le falle e dagli anni Ottanta in avanti non si contano i tentativi di porvi rimedio. Se il sistema attuale fosse accettabile, non si capirebbe questo accanimento riformatore di quasi 40 anni. Tutti in palese malafede? Tutti animati da volontà di deturpare la Costituzione? Difficile sostenerlo solo a scorrere i nomi di coloro che in questi molti anni hanno con chiarezza espresso la necessità di una riforma. Nel 1979 Nilde Iotti scriveva:
«Basta con questo assurdo bicameralismo perfetto unico nel mondo e causa di ritardi. Basta con mille parlamentari, quanti ne ha la Cina, ma loro sono un miliardo e trecento milioni. Più penetranti poteri di controllo del Parlamento. Federalismo istituzionalizzato, trasformando il Senato in Camera delle regioni e dei poteri locali: perché il Senato non potrebbe essere come il Bundesrat tedesco (…). Affrontare quelle parti della Costituzione che il tempo e l’esperienza hanno dimostrato inadeguate (…). Tutelare in primo luogo i diritti delle minoranze ma anche il diritto-dovere della maggioranza, qualunque essa sia, di legiferare».
Non bastassero questi solenni auspici di cambiamento espressi da decenni a questa parte, si dovrebbe ricordare l’inizio drammatico di questa legislatura. Il centrosinistra con Bersani aveva vinto la maggioranza dei seggi alla Camera, ma non al Senato. Avendo noi un sistema di bicameralismo paritario in cui entrambi i rami del Parlamento devono votare la fiducia al Governo la situazione era entrata in un insopportabile stallo. “Se nessuno vince le elezioni, poco male! – dicono i critici – Si va in Parlamento e si fanno le alleanze”. Peccato che l’alleanza con Monti non fosse sufficiente ad avere la maggioranza al Senato, l’alleanza con i 5 Stelle fosse impossibile per la loro volontà di non contaminarsi, l’alleanza con Berlusconi al governo (non sulle riforme) fosse – ovviamente – considerata in contraddizione politica con tutto ciò che si era predicato ai tempi del Governo Berlusconi e dello stesso Governo Monti. «Mai più un altro Governo non deciso dal voto popolare» aveva detto Bersani per tutto il 2012, ripetendo quello che tutto il centrosinistra dalla Commissione Bozzi in avanti e dall’Ulivo di Romano Prodi avevano sempre ripetuto: «vogliamo una legge elettorale con cui la sera delle elezioni si sappia chi ha vinto». Quello che ne è seguito (la rielezione di Napolitano, la commissione dei Saggi, il Governo Letta) è stato accompagnato da un unico, costante, monotonorefrain: questa volta bisogna cambiare la Costituzione superando il bicameralismo paritario e bisogna cambiare la legge elettorale in modo da dare ai cittadini il potere di determinare con il loro voto l’indirizzo politico del Governo. Tutto questo, che era sentire comune non mille anni fa ma tre anni fa, ha portato all’elaborazione della proposta di riforma costituzionale del Governo Renzi e di nuova legge elettorale.
Nel frattempo il sentire comune e i suoi presupposti che parevano acquisiti sono stati messi in discussione dalle diverse opposizioni politiche e la maggioranza di governo si è trovata di fronte a un bivio: lasciar stare o andare avanti con chi ci stava? Guardando le macerie che stavano alle spalle – trent’anni di tentativi falliti e il micidiale stallo di inizio legislatura – si è detto “Proviamo ad andare avanti. Se torniamo a casa con un ennesimo nulla di fatto, il giudizio sull’inconcludenza e inutilità dei parlamentari sarà definitivo”. Non solo, anche il giudizio sulla politica democratica – già oggi percepita non solo come una furfanteria, ma spesso come un affare inutile – sarà del tutto negativo. Per questo si è deciso di andare avanti. Non è stato né facile, né piacevole, ma alla fine questo Parlamento ha fatto la sua parte e ha fatto le riforme nel modo in cui poteva farle: rispettando l’art. 138 senza mai aggirarlo con assemblee costituenti, commissioni bicamerali o procedure agevolate, ma cercando un accordo e votando articolo per articolo.
Non cambia la forma di governo
Benché i critici parlino di “stupro” della Costituzione, la riforma lascia intatto il cuore della nostra Carta (i principi fondamentali e i diritti e i doveri dei cittadini). Interviene solo sull’ordinamento della Repubblica, in particolare sulla natura e le funzioni del Senato e dunque sul procedimento legislativo, nonché sul rapporto Stato-Regioni, senza toccare però l’architettura fondamentale dei poteri, ossia la forma di governo, il Presidente della Repubblica, la magistratura, la Corte Costituzionale. In ciò è assai più timida di molti altri tentativi del centrosinistra: non parliamo del progetto della Bicamerale D’Alema, ma anche del programma dell’Ulivo del ‘96 che prevedeva il governo del premier, di cui nel testo della riforma non c’è – starei per dire: ahimè – nemmeno l’ombra. Quando con altri deputati tentammo di introdurre nel testo la “sfiducia costruttiva” sul modello tedesco, il Governo respinse gli emendamenti dicendo che toccavano la forma di governo e che la riforma non aveva nel modo più assoluto questo intento. L’unico provvedimento che rafforza minimamente il Governo di fronte al Parlamento è la possibilità da parte del Governo di chiedere che la Camera si pronunci entro una data «certa» e in questo caso la Camera è «obbligata» a farlo approvando o respingendo il provvedimento entro 70 giorni.
Per questo è davvero stupefacente assistere a una discussione in cui l’accusa maggiore mossa alla riforma sarebbe quella di rafforzare in modo abnorme i poteri del premier o addirittura di introdurre una forma di governo autoritaria tale da sradicare la Costituzione dai suoi fondamenti democratici e antifascisti.
La trasformazione del Senato in una Camera delle autonomie è un arricchimento della rappresentanza e certo non un suo indebolimento. Un indebolimento della rappresentanza del popolo è piuttosto – come in tutte le teorie aristocratiche e liberali – affiancare la Camera dei Deputati, rappresentativa da tutti i cittadini, da un Senato meno rappresentativo a cui si conferiscono i medesimi poteri come accade nel nostro bicameralismo paritario. Infatti le decisioni assunte dai rappresentanti di tutti i cittadini (dai 18 anni in su) devono poi essere approvate da un’altra camera, il Senato, meno rappresentativa (sono infatti esclusi dal voto i giovani dai 18 ai 25 anni). Sul piano dei principi, dunque, un assetto come quello della riforma che delinea un’unica Camera politica eletta da tutti i cittadini è un assetto più democratico, non meno democratico di quello attuale.
Viene poi previsto uno Statuto dei diritti dell’opposizione in Parlamento e vengono rafforzati gli strumenti della democrazia diretta come le proposte di legge di iniziativa popolare che il Parlamento non potrà ignorare e i referendum, il cui quorum viene abbassato, per evitare che venga vanificato da un astensionismo strumentale. Le soluzioni tecniche potranno essere discutibili, ma vanno in direzione di un “più” e non di un “meno” di democrazia.
Una nuova rappresentanza territoriale
Non solo: la rappresentanza viene arricchita. Perché nel futuro Senato avremo rappresentati i territori che decideranno a pieno titolo sulle leggi costituzionali e ordinamentali e che potranno esprimere il loro parere e le loro proposte emendative su tutte le politiche nazionali, valutandone poi l’impatto sui territori. Non sarà forse una ricchezza in più poter sentire non il parere degli stessi partiti che già sono rappresentati alla Camera (e perché mai dovrei sentire due volte il parere del PD o dei 5Stelle?) ma il parere degli amministratori locali, di presidenti di Regione e consiglieri e sindaci votati dai cittadini? La storia del Senato dei “nominati” è un’altra delle bufale ascoltate. Si tratta di amministratori locali votati da decine di migliaia, talvolta da milioni di elettori come i Presidenti delle grandi Regioni. Più votati di singoli deputati che magari saranno eletti con le preferenze del loro collegio. Forse che Maroni o Zaia, Rossi o Emiliano, Sala o Raggi sono dei “nominati”? E perché non dovrebbe essere utile e importante ascoltare il loro parere e le loro proposte su riforme sanitarie o politiche sociali o su tutte le questioni che toccano la vita delle persone e che loro, come amministratori locali, avvertono in prima persona, nelle loro dimensioni non solo politiche, ma anche concretamente applicative?
Non si dica poi che il nuovo procedimento legislativo produrrà lentezze peggiori delle presenti: dal 2013 a oggi sono state votate da almeno una delle due Camere 260 proposte di legge. Di queste solo 8 (di cui 3 costituzionali) sarebbero di competenza bicamerale (secondo la previsione della riforma). Il resto sarebbero tutte a prevalenza Camera. Dunque di quale ingolfamento parliamo?
Infine i rapporti tra Stato e Regioni nel titolo V. Il regionalismo è una bellissima cosa, ma quello che abbiamo realizzato non funziona. E non funziona a scapito dei diritti dei cittadini. Vi sono disparità inaccettabili nei livelli di salute, vi sono soldi che rimangono non spesi per inadempienze delle Regioni in settori vitali e delicatissimi come il contrasto alla violenza sulle donne, vi sono soldi stanziati con leggi nazionali per asili nido o altre misure sociali contro cui le Regioni hanno fatto ricorso alla Corte per competenze violate, vi sono misure di interesse nazionale come le politiche energetiche (uno dei settori così cruciali da produrre conflitti e guerre in Europa orientale, in Caucaso, in Medio Oriente) che si trovano bloccate da veti locali. Sulla maggior parte di tali questioni la Corte Costituzionale si è già pronunciata moltissime volte a favore dello Stato e la riforma in pratica non fa che prendere atto di tale giurisprudenza. Dunque non si toglie molto alle Regioni, si riconosce invece la possibilità da parte loro di chiedere ulteriori competenze laddove i bilanci siano in ordine e si attribuisce loro un protagonismo politico nel nuovo Senato che, se giocato saggiamente, rafforzerà il loro peso.
La difficoltà di cambiare
Molte delle soluzioni adottate nella riforma su questo punto sono discutibili. Moltissimi dei punti più controversi sono il frutto di estenuanti trattative e alla fine di compromessi. L’articolato non è stato scritto da un singolo costituzionalista nel suo studio e nemmeno da dieci saggi, ma è un testo che ha dovuto conquistare il consenso della maggioranza di fronte all’ostruzionismo agguerritissimo di opposizioni che hanno presentato milioni (milioni!) di emendamenti, dovendo subire ostilità interne spesso formidabili. Uno dei tratti davvero singolari della vicenda riguarda ad esempio la questione dell’elezione dei senatori collegata alla volontà dei cittadini. I senatori che si batterono per quell’emendamento (a mio parere in parte contraddittorio con la logica dell’elezione indiretta) quando la ebbero vinta dal Governo esultarono e dissero che avevano salvato la democrazia e ora potevano votare la riforma. Cosa che poi hanno fatto al Senato votando “sì”. Peccato che ora qualcuno di loro si sia deciso per il “no”!
In altre condizioni si sarebbe potuto far meglio. Nelle condizioni di questa legislatura pare un miracolo essere arrivati in fondo. Nonostante tutto un organo come il Senato che decide di trasformarsi radicalmente e condanna i suoi membri attuali a non poter essere rieletti in quell’organo è un miracolo, un grande atto di responsabilità. Sarebbe un peccato se il referendum rovesciasse questo risultato. Se vincesse il “no”, l’idea di un Senato diverso sarebbe sepolta. Di riforma del bicameralismo non si parlerebbe per molti anni e ognuno potrebbe invocare la volontà del popolo per conservare il potere del Senato nella sua forma attuale. Come non cogliere questo punto fondamentale?
Una legge elettorale che faccia del cittadino l’arbitro
Vi è poi, collegata alla riforma costituzionale, la questione della riforma elettorale. Le due cose, come dovrebbe essere universalmente noto, sono distinte e al referendum non si voterà sull’Italicum. Ma è giusto riconoscere che vi è una connessione. La riforma attribuisce alla sola Camera il compito di dare la fiducia al Governo e di decidere sulle politiche nazionali, dunque non è irrilevante come la Camera viene eletta. Ed è corretto riconoscere che ciò che non si è voluto fare con la riforma costituzionale, ossia stabilizzare i governi, vero problema della politica italiana, si cerca di farlo con la legge elettorale. Ma chiunque consideri i testi vede che è solo un tentativo indiretto: si cerca di porre le condizioni per la stabilità dei governi, ma certo non la si impone. Con una maggioranza di 340 deputati, che l’Italicum attribuisce al primo partito (se raggiunge il 40% al primo turno o se vince il ballottaggio), basteranno 30 deputati per far cadere il governo o ricattarlo. Dei 340 (ammesso che non vi siano revisioni della legge) solo 100 saranno capilista scelti dal partito (e certo non dal solo segretario ma da tutti coloro che lo sostengono) e gli altri 240 saranno scelti con le preferenze. Nel Paese del trasformismo e del tradimento politico pensare che questo meccanismo possa creare l’“uomo solo al comando” è solo polemica politica. Anche con l’Italicum la politica rimarrà affare collegiale e avrà bisogno più che mai di senso di responsabilità del tutto.
La legge elettorale è una legge ordinaria. Il Parlamento potrà cambiarla se lo riterrà opportuno, sul breve o sul lungo periodo. Non è certo un vulnus della democrazia.
Se si vorrà, l’Italicum si potrà migliorare nei suoi punti più critici, ma, a mio parere, sarebbe un grave errore toccarne la logica più profonda: quella che in Commissione Bozzi fu proposta tra gli altri da Roberto Ruffilli e Nino Andreatta (che propose esplicitamente un ballottaggio per la scelta del governo incarnato da una maggioranza, un programma e un leader) di fare del cittadino non un suddito dei partiti, ma l’arbitro dei governi. Questo è un più di democrazia, non un meno. In un’epoca sempre più sovranazionale la sfida della democrazia è rafforzare il potere del cittadino di indirizzare con il suo voto il Parlamento e il Governo perché perseguano in modo forte e coerente gli obiettivi che il cittadino stesso con il suo voto ha stabilito. E all’opposizione il potere di controllare e criticare e preparare un’alternativa credibile per il futuro. Governi evanescenti sotto continuo ricatto, formati non dal voto ma da trattative poco nobili tra i partiti, procedimenti legislativi lenti e farraginosi, mancato coordinamento tra organi centrali dello Stato e amministrazioni locali non sono certo ciò che rafforzano il nostro Paese sulla scena europea e internazionale. E nemmeno rafforzano il potere dei cittadini di decidere sul destino comune.
La fatica di guardare dall’alto
È quasi inevitabile, nel momento in cui siamo chiamati a dar conto delle nostre scelte, usare delle metafore. La metafora più adatta per questa occasione sembra quella della torre (o della montagna). Da un luogo elevato, gradualmente asceso, è possibile guardare un orizzonte più ampio e comprendere meglio la situazione in cui ci si trova.
Al “piano terra” c’è il merito della riforma, con tutti i dubbi che può suscitare. Ma il suo significato può essere colto davvero solo se ci si alza. Dal “primo piano” si scorge il modo, indubbiamente faticoso, attraverso il quale si è giunti a questa formulazione, partendo dallo stallo e dalle solenni e collettive promesse del 2013. Il piano ancora superiore ci fa cogliere come da molti decenni l’Italia sia in attesa di una riforma di questo genere: proprio la sua assenza ha prodotto danni non solo e non tanto al nostro sistema politico o economico, ma proprio alla qualità della nostra convivenza. I cittadini non vedono più una connessione tra le loro scelte e la composizione del parlamento e quella del governo (un’opacità scientemente e potentemente aumentata da una legge elettorale, quella del 2005, definita “porcata” dal suo stesso estensore). Non vedono più motivazioni degne per un impegno diretto nella politica, tanto che la parola stessa “politico” è diventata un insulto. Ma c’è ancora un piano da salire, che è quello dal quale si vede la più generale difficoltà, a livello mondiale, di rendere ragione dei motivi e dei meccanismi della convivenza civile pacifica. In assenza di coerenza (di corrispondenza tra le decisioni che si prendono e i risultati che si ottengono) e di responsabilità (non si capisce chi si fa carico delle decisioni e poi ne risponde) il sistema democratico non funziona e non ha alcuna possibilità di fare fronte agli altri poteri esistenti, da quelli economici a quelli criminali, che non sono espressione della sovranità popolare.
Il “piano terra” (questa riforma costituzionale) potrà anche non essere perfetto, ma è necessario rafforzarlo, perché un sistema istituzionale che non funziona viene poco alla volta svuotato. I princìpi non si impongono per la forza della carta su cui vengono scritti, ma perché vi sono cittadini che quotidianamente li rispettano. E lo fanno se e quando credono che valga la pena continuare a farlo.