Europa salva se segue la via riformista

La nuova sconfitta elettorale della Cdu, stavolta a Berlino, ha messo in evidenza tutti i limiti della strategia attendista di Angela Merkel e riproposto come unica soluzione possibile della crisi europea la via riformista, suggerita nei giorni scorsi a Trento da Mario Draghi. Stare fermi, in attesa che l'onda populista passi, ogni giorno di più appare una scelta dettata dalla paura più che dalla prudenza.
Giorgio Tonini, "Trentino", 21 settembre 2016

 

Battere il populismo difendendo lo status quo è infatti illusorio, per la semplice ragione che lo status quo è indifendibile e insostenibile. Per tutti, tedeschi compresi. 
Se la casa brucia, restare fermi aspettando che le fiamme si estinguano non è una strategia. E se si vuole evitare che l'unica alternativa alla morte certa sia la mossa, dettata dalla disperazione, di buttarsi dalla finestra dell'ultimo piano, come in sostanza propongono tutti i populisti, bisogna organizzare una risposta coraggiosa e razionale al tempo stesso, come quella a cui sono addestrati i vigili del fuoco. La prima settimana di settembre ho partecipato a Bruxelles alla Conferenza interistituzionale (Parlamento europeo e parlamenti nazionali) sul futuro del bilancio dell'Unione europea. Mario Monti è incaricato di predisporre un rapporto su una questione apparentemente ipertecnica, in effetti squisitamente politica. Come ho avuto modo di dire nel mio intervento, oggi l'Europa è l'area del mondo con la più alta incidenza della spesa pubblica in rapporto al PIL.

Il vecchio continente viaggia attorno al 45%, gli USA sono dieci punti sotto. Il problema è che mentre la spesa pubblica americana (circa un terzo del loro prodotto) è equamente distribuita (50 e 50) tra il bilancio federale e quelli degli stati, la ben più corposa spesa pubblica europea è gestita al 98% (!) dagli stati nazionali e solo per il 2% dall'Unione. Non è tutto: quel minuscolo 2% è quasi interamente assorbito, non dalla famelica burocrazia di Bruxelles, additata al pubblico ludibrio in tutti i comizi antieuropeisti, e che invece costa solo il 6 per cento di quel 2 (in pratica lo 0,0012% della spesa pubblica europea...), ma per sostenere l'agricoltura e finanziare i fondi di coesione territoriale. Ottime cose, per carità. Ma chi si occupa, in Europa, di difesa e sicurezza interna, immigrazione e cooperazione allo sviluppo, grandi infrastrutture ed energia, ricerca e innovazione, sostegno alla crescita e all'occupazione? Di fatto, nessuno. Non gli stati nazionali, troppo piccoli, anche i più grandi, per farlo efficacemente. Ma neppure l'Unione, che non ha né la competenza giuridica, né tantomeno le risorse finanziarie, per farlo. Basti pensare, per fare solo un esempio, che quella europea è la seconda spesa militare del mondo dopo quella americana, pari a quella cinese e russa messe insieme, ma serve a finanziare 28 eserciti incapaci da soli di fronteggiare qualunque minaccia esterna...

Che i popoli europei siano sempre più insoddisfatti di questo stato di cose è più che comprensibile, è perfino ovvio. Come si fa a non arrabbiarsi se ti chiedono di pagare il 45 per cento di quello che produci, molto più di ogni altra area del mondo, per avere in cambio un sistema pubblico che non assicura più, a livelli accettabili, né sicurezza, né crescita economica, né coesione sociale? La risposta populista non solo non risolve, ma aggrava la crisi. "Restituiamo la Francia ai francesi", propone la signora Le Pen. Come se la Francia fosse in grado da sola di garantire ai suoi cittadini, nel mondo globalizzato di oggi, sicurezza, crescita e occupazione, riappropriandosi di quel fastidioso 2 per cento trasferito a Bruxelles. Ma alla demagogia neo-nazionalista non si può rispondere con l'avanti piano, quasi indietro, dell'attuale, stanco motore franco-tedesco, ma solo rilanciando una credibile strategia neo-federale, ispirata (come ha proposto Draghi sulle orme di Degasperi) ad un rinnovato principio di sussidiarietà.

È l'intero sistema della spesa pubblica europea che va rivisto in profondità: lasciando e se necessario restituendo agli stati nazionali le competenze che meglio possono essere gestite a quel livello e mettendo invece in comune (se necessario, almeno in una prima fase, sulle basi volontarie delle cooperazioni rafforzate) sovranità e risorse, per affrontare a livello sovranazionale le questioni che si presentano come troppo complesse per poter essere gestite dai singoli stati. Questa è la vera "Grande Riforma" che serve al futuro dei nostri figli. Ma chi è in grado in questo momento di farsene carico? Dopo la Brexit, il pallino l'hanno in mano tre paesi: Germania, Francia e Italia. Difficile dire se e quando i tre grandi d'Europa troveranno un accordo dettato dal coraggio riformatore e non dalla paura conservatrice. Una cosa, però è certa: l'unica via attraverso la quale noi italiani possiamo contribuire a far evolvere la situazione in modo positivo è quella di sostenere lo sforzo di rinnovamento che il governo Renzi, anche raccogliendo l'eredità dei predecessori, ha messo in campo e che ha positivamente impressionato non solo i governanti, ma soprattutto le opinioni pubbliche degli altri paesi europei. Anche per questo è importante che al referendum costituzionale vinca il Sì.