Il vicepresidente Alessandro Olivi sa che qualche operazione non è andata com'era sperato. Ma rivendica l'operato della giunta su due fronti: l'uso corretto della finanza pubblica («è un prestito a tassi di mercato con garanzia dell'immobile, non un contributo a fondo perduto») e la capacità di far fronte ad un momento in cui sembrava crollasse il mondo, non solo il manifatturiero trentino. "L'Adige", 3 settembre 2015
Soprattutto, sembrava crollare il settore bancario. Erano i giorni del cuore della crisi, serviva una scossa: «Fu uno strumento usato nella speranza di salvaguardare dei patrimoni industriali che ritenevamo fondamentali per tessuto produttivo. Quando anche i numeri che sorreggevano l'operazione, dal punto di vista finanziario, erano numeri non indicativi di una prospettiva di grande solidità, abbiamo considerato la difesa dell'occupazione come fondamentale». Ricorda le clausole sulla tenuta occupazionale, Olivi, e rivendica di aver salvato posti di lavoro per qualche anno anche nelle operazioni andate male. «Col senno di poi ammetto che alcune di quelle operazioni, in particolare Martinelli e Gallox, le abbiamo gestite con troppa attenzione al tema dell'occupazione e meno con l'analisi approfondita di ciò che poteva essere la capacità di recupero. Così come tornando indietro metterei vincoli più a lungo termine sull'occupazione». Ma difende Marangoni, che grazie al lease back «ha spostato a Rovereto le attività direzionali e quelle di sviluppo e ricerca in un momento in cui dismetteva altrove» e soprattutto Arcese: «Non è vero che è in crisi, da due anni ha margini positivi. Sta cambiando l'attività, sta creando un polo della logistica». Ma sull'intera operazione: «È chiaro che rileggere con gli occhi di oggi decisioni prese nel 2008 e 2009 è facile, ma non ci si pone la domanda su cosa sarebbe accaduto. Io un'idea che l'ho: avremmo avuto più cadaveri e più licenziati. Perché tanti lease back hanno avuto ottimi risultati con aziende che si sono riorganizzate e sono pronte alle sfide del mercato».Detto questo, l'assessore all'industria fa notare che lo strumento del lease back è stato di fatto abbandonato, è cambiata la filosofia: «Se lo useremo ancora sarà in modo inverso: non più come conservazione e difesa di capitale economico e sociale, come allora, ma per generare spinta e sviluppo».
Più secco ancora dell'assessore è il presidente di Confindustria Giulio Bonazzi . Che parla di «attacco vergognoso». E spiega:«Il lease back è uno strumento importantissimo. Non mi nascondo dietro ad un dito: l'ho usato anch'io (è presidente di Aquafil, ndr ). E penso anche che con me la Provincia abbia fatto un ottimo affare». Ma Bonazzi è uomo d'impresa, quindi è pragmatico. E parte dai dati, dai numeri: «Io credo che criticare in un periodo di crisi come questo uno strumento che non ha funzionato come sperato in 3 casi su 24 è assurdo. Vorrei davvero che le banche avessero erogato con un tale tasso non performing».E ancora: «Ci sarebbero tanti argomenti per stimolare chi governa. Ma questo proprio no. In quegli anni di crisi, per molte imprese il lease back ha significato un mezzo per aiutare l'impresa a trovare liquidità a tassi di mercato. Perché non stiamo parlando di tassi agevolati. In quel momento c'erano casi di aziende in utile che però dovevano rientrare di un finanziamento. Avrebbero potuto fallire. Il lease back è stato un aiuto, in un periodo particolare, che non ha distorto le regole di mercato. Se poi qualcuno non ha pagato le rate fin da subito, significa che non aveva merito di credito, ed è stato sbagliato darglielo. Ma stiamo valutando dopo, a posteriori». È arrabbiato, Bonazzi. Anche perché dietro alle critiche al lease back vede un attacco al manifatturiero: «Continuiamo a dipingere nell'immaginario della popolazione l'imprenditore come uno che froda le tasse e prende contributi a fondo perduto, dopo aver rubato alla popolazione. Quando invece rischiamo tutto, lavoriamo a scapito della famiglia, nel rispetto della legislazione europea, pagando fiori di tasse: il 23% delle tasse trentine arriva dal sistema confindustriale. In questo senso credo che questo sia un attacco vergognoso».
"Sono stati salvati posti di lavoro". Cgil, Cisl e Uil difendono lo strumento: "Alcune operazioni sfortunate, ma il risultato è positivo"
Con i lease-back una montagna di denaro pubblico, si parla di oltre un centinaio di milioni di euro, è finita anche a ditte in gravissima difficoltà. Difficile a questo punto non porsi la domanda, se pure provocatoria, se forse non sarebbe stato meglio usare questi soldi in maniera diversa, per assurdo pensare addirittura di distribuirli ai lavoratori ora disoccupati.«Come ogni provocazione - risponde Franco Ianeselli , segretario generale della Cgil per il Trentino - ha una piccola parte di verità, ed è lecito farsi tutte le domande possibili. Ma quello che va capito è se si è trattato di aiuto vero e proprio, oppure di accanimento terapeutico. Non tutti i lease back sono stati dei fallimenti, ed anzi l'aiuto pubblico in certi casi è stato garante di stabilità occupazionale. Per esempio la Whirpool, anche se i termini sono diversi, se non fosse stata aiutata avrebbe chiuso anni prima». «Bisogna però stare attenti - continua Ianeselli - di non fare di un'erba un fascio. E ricordare che strumenti di questo tipo servono ma non sono sufficienti. Per aiutare veramente i lavoratori servono politiche di contesto e sostegno ai disoccupati. Solo in una situazione attrattiva per le industrie, che sappia offrire qualità del capitale umano, centri di ricerca, alta formazione, si possono creare posti di lavoro; dall'altra si deve sostenere chi è senza lavoro fornendo formazione, competenze certificate. Le perplessità sono ammesse, ma liquidare tutto sostenendo che i lease back non sono serviti a niente è semplicistico. Certo, se le ditte non rispettano i patti, devono restituire i soldi».Il registro è molto simile anche per Lorenzo Pomini , segretario della Cisl, che però sottolinea anche la responsabilità degli imprenditori, che devono saper fare il proprio mestiere, e puntualizza il tipo di impresa giusta per la nostra provincia: «Pensare un Trentino di solo turismo e servizi è una vera follia - dice - Dobbiamo portare il manufatturiero anche in periferia e puntare su prodotti ad alto contenuto tecnologico, che non siano soggetti alla concorrenza e la manodopera a basso costo degli altri Paesi». Quanto ai lease back, Pomini ribadisce che «è impossibile sapere a prescindere che una ditta fallirà» e sottolinea «l'importanza di mantenere sul territorio per alcuni anni delle sedi importanti, perché senza quell'aiuto di sicuro quelle ditte avrebbero chiuso o se ne sarebbero andate via». «In quel caso - riprende Pomini - la differenza sarebbe stata enorme perché oltre allo stipendio dato al singolo operaio, non va trascurato l'indotto, che comprende il giro di artigiani, trasporti, servizi, la tassazione. E queste clausole sociali sono proprio quelle contenute nei contratti di lease back». «È chiaro - conclude il sindacalista - che è dura entrare in una fabbrica a contrattare condizioni peggiorative pur di salvare posti di lavoro, ma nel caso di Marangoni, e non è che lo voglia difendere, ha chiuso stabilimenti in giro per l'Italia per salvare quello di Rovereto e ci ha messo dei soldi suoi».«Quando si parla di lease back - ci tiene a precisare Walter Alotti , segretario della Uil Trentino - bisogna dire che il meccanismo nel tempo si è evoluto, ora c'è molta attenzione rispetto sia all'azienda che al prodotto, ed i parametri sono molto rigorosi». Quanto ai tanti soldi spesi, ammette che «c'è stata qualche leggerezza, probabilmente nella sopravvalutazione di alcuni immobili, anche se c'è sempre la Corte dei conti che controlla tutto», ed in effetti va detto che «ci sono state alcune operazioni sfortunate come Marsilli o Martinelli». Ma Alotti sostanzialmente difende lo strumento del lease back: «Grazie a queste operazioni si sono mantenuti posti di lavoro a stipendio normale ed è stato costituito un patrimonio di immobili che ora viene utile per altri tipi di interventi, capannoni da mettere a disposizione delle ditte che potrebbero venire in Trentino per far ripartire l'attività». «Queste imprese - conclude - hanno portato reddito sul territorio e per fare un bilancio vero bisogna fare i conti dalla A alla zeta».
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