"Basta parlare di art.18: servono investimenti e innovazione per rilanciare il Paese”, intervista a Ronny Mazzocchi

Di articolo 18, riforma del mercato del lavoro, flessibilità, salario minimo e tanto altro, una chiacchierata con Ronny Mazzocchi, professore di economia monetaria e finanziaria e macroeconomia all’Università di Trento, collaboratore di Unità e ItalianiEuropei nonché responsabile Formazione del PD del Trentino, a pochi giorni dalla riapertura dei lavori parlamentari sulla riforma.
Pubblicato su http://www.gdtoscana.it/, 18 settembre 2014 

 

 

Si torna a parlare di art. 18 come soluzione ai problemi occupazionali: lo è? Invece quali sono i motivi?

L’articolo 18 non c’entra nulla. Paradossalmente lo riconoscono gli stessi fautori della sua eliminazione quando ammettono che ormai è una tutela che riguarda una minoranza di lavoratori. Lo hanno definito un “totem” e probabilmente è la parola giusta. Ma vale per entrambe le parti, sia per quelli che lo difendono come la linea del Piave, sia per quelli che lo continuano ad identificare come la causa di tutti i mali.

 

Esiste una relazione tra flessibilità del mercato del lavoro e numero di occupati?

La relazione esiste, ma è di breve periodo. I licenziamenti più facili possono favorire una aumento più rapido della disoccupazione nei periodi di crisi e un riassorbimento più rapido nei periodi di boom. Ma non hanno nessun effetto sulla quantità totale di occupati, che invece è ciò che dovrebbe interessarci maggiormente.

 

Il lavoro flessibile e non precario è un’utopia oppure è effettivamente  una prospettiva?

E’ difficile fare un discorso generale. La flessibilità per alcuni può essere addirittura un’occasione di accrescimento professionale. Però quando si legifera in materia di lavoro si dovrebbe tenere in considerazione soprattutto i bisogni dei molti che la flessibilità non la cercano, ma la subiscono. E la soluzione non può limitarsi a introdurre un po’ di ammortizzatori sociali per chi il lavoro lo perde. E’ necessario che tutti gli elementi che rendono una vita degna di essere vissuta – famiglia, tempo libero, vita sociale, etc. – vengano preservati anche in una organizzazione del lavoro diversa da quella che abbiamo conosciuto in passato.  Senza questo punto fermo qualsiasi riforma del lavoro costituirebbe un passo indietro rispetto a quanto conquistato in un secolo di lotte.

 

Lo Bello e tanti datori di lavoro cominciano a riconoscere pubblicamente che la flessibilità non aumenta, anzi diminuisce la produttività dei lavoratori. Perchè allora i nuovi contratti sono per la stragrande maggioranza  a tempo determinato?

In questa fase questo accade perché le aspettative delle imprese sulla ripresa economica sono pessime e quindi molte di loro non se la sentono di imbarcarsi in un rapporto di lavoro a medio-lungo termine. Una buona crescita economica implica non solo la piena occupazione, ma anche una buona occupazione. Ad esempio, fra il 1999 e il 2001 si è registrata una eccezionale crescita del livello occupazionale (oltre un milione di unità), ma l’incidenza dei lavori flessibili è diminuita, segno che le imprese nei momenti di grande espansione economica rispondono positivamente e cercano di costruire dei rapporti di lavoro stabili. Ovviamente questo non vale per tutte le imprese. Contrariamente alla retorica sulla flessibilità come ingrediente necessario per essere più competitivi sui mercati internazionali, sono proprio le imprese più innovative e più orientate all’export che tendono ad assumere i lavoratori a tempo indeterminato. Viceversa, le imprese che impiegano di più i lavoratori con contratti precari sono quelle meno efficienti e che operano in settori protetti dalla competizione. Per queste ultime la flessibilità è uno strumento per scaricare sui lavoratori le loro inefficienze.

 

Ci dicono “troppi laureati in italia”, ma i dati sono diversi: ne abbiamo pochi, ma non riescono a entrare nel mercato del lavoro con ruoli adeguati. Perchè?

Perchè anni fa si è pensato erroneamente che una società più educata fosse sufficiente a far fare il salto tecnologico e produttivo a un paese. Ma non è così. Una forza lavoro più formata è una condizione necessaria, ma non basta perché i posti di lavoro dove sfruttare le competenze di quei lavoratori devono essere creati. E se non lo fa il mercato – e abbiamo visto che non lo ha fatto – ci deve pensare lo Stato attraverso adeguate politiche industriali.

 

Cosa ne pensa della Youth Guarantee? Un piccolo intervento su questo tema può essere un inizio o c’è il rischio di essere una spesa poco efficace? Può essere utile a rilanciare occupazione? In Italia la sua attuazione sta funzionando?

La Youth Guarantee è uno strumento nato con lo scopo di riassorbire il drammatico fenomeno dei cosiddetti NEET, ovvero i giovani che non lavorano ma che non stanno ricevendo nemmeno una qualche forma di formazione. I risultati non entusiasmanti finora registrati sul fronte occupazionale non devono farci pensare che sia uno strumento inutile. La Youth Guarantee è stata caricata di compiti che non le sono propri. Non è nata per rilanciare l’occupazione, ma per favorire l’impiego di una precisa categoria di persone svantaggiate (appunto i NEET). Gli effetti benefici ci saranno quando ripartirà la crescita economica.

 

Da anni si dice “basta con l’austerità”, a che punto siamo? Le politiche europee presentate da Junker sono sufficienti? 

C’è senza dubbio un cambio di clima in Europa. Due anni fa la ricetta per uscire dalla crisi erano le politiche di austerità. Oggi nessuno si azzarda più a nominarle se non in una accezione negativa. Dopo le elezioni europee c’è stata una indubbia accelerazione nella revisione critica delle politiche economiche passate. La BCE e la Commissione hanno cominciato a parlare con sempre maggiore insistenza di investimenti pubblici e di applicazione più flessibile dei vincoli alla finanza pubblica. Non è tutto, ma è molto. Se le istituzioni europee vogliono che i governi nazionali passino dalle parole ai fatti per quanto riguarda le cosiddette “riforme strutturali” devono mostrare che questo principio è valido anche per loro.

 

Cosa serve all’Italia per ricominciare a dare lavoro?

Serve soprattutto far ripartire gli investimenti pubblici e privati. Sono la chiave per creare una crescita che non sia soltanto un fuoco di paglia ma sia duratura nel tempo. Per i primi speriamo in un rinnovato clima europeo che garantisca maggiori margini di manovra ai governi. Per i secondi è necessario agire su quelli che sono i due punti dolenti del nostro sistema produttivo: accesso alle forme di finanziamento e strumenti che favoriscano l’innovazione.

 

Salario minimo e reddito minimo garantito, due strumenti diversi. Servono oggi in Italia?

Il reddito minimo garantito è una proposta affascinante, anche se credo che finirebbe per essere un semplice sostituto delle forme di sussistenza già esistenti. È una forma di compensazione ex-post dei disagi dovuti alla mancanza di lavoro che non agisce sulle ragioni strutturali che fanno sì che ci siano persone senza un impiego.

Viceversa il salario minimo può essere utile: in un mondo del lavoro che vede un numero crescente di lavoratori non coperti da un contratto nazionale, fissare un pavimento al sistema può essere utile a evitare fenomeni di vero e proprio sfruttamento.