Ricostruiamo la fiducia e la speranza per il Paese

“Serve riabilitare l'Italia con rigore, riforme e prospettiva europea”. Sintesi della relazione del segretario Pier Luigi Bersani alla Direzione nazionale del PD del 3 ottobre 2011.

Il primo passo deve essere quello di aggiornare la nostra analisi, nel solco di ciò che abbiamo affermato da tempo. Noi abbiamo visto non da oggi il dato strutturale di una crisi nella quale la questione democratica e la questione sociale si sono intrecciate. Abbiamo indicato per tempo una fase di un lungo, difficile, incerto e fiammeggiante tramonto. C’è da aggiungere quel che è avvenuto in questi mesi estivi: un salto di qualità negativo su tre punti fondamentali. Primo: nel quadro di una crisi finanziaria sostanzialmente fuori controllo, l’Italia si trova sul fronte più esposto ed è oggi realmente la maggior preoccupazione per l’Europa e per il mondo. Secondo: la stagnazione economica tende a prendere la forma di una recessione, la questione sociale e quella del lavoro si accentuano, si allarga la forbice sociale e l’incertezza che ne deriva comincia a prendere la forma dell’allarme e in alcuni strati sociali la forma della paura. Terzo: l’assenza di governo, che era evidente già prima dell’estate, si è trasformata nell’ostacolo del governo, un macigno che impedisce al paese di riprendere la propria strada. Su questi tre punti fondamentali l’opinione pubblica vive una sensazione di fortissimo disagio, assiste a uno spettacolo di impotenza ad agire e reagire da parte delle istituzioni e del sistema politico. Non c’è solo Della Valle ad avere pensieri rabbiosi e confusi. Beninteso, non dico che quei pensieri siano condivisibili, dico però che sono condivisi.



Nella scala europea le risposte arrivano con ritardo e in modo insufficiente. Per dirla in due parole, si fa abbastanza per andare in stagnazione, ma non si fa abbastanza per mettere in sicurezza le banche e i paesi. Con tutta evidenza questo ciclone finanziario sceglie la direzione di marcia non in ragione dei fondamentali dell’economia, per capirlo basterebbe guardare al debito giapponese o al deficit americano, ma in ragione della presenza di un sistema credibile di decisioni istituzionali e pubbliche, capace di fare argine con efficacia e rapidità. Nel caso europeo questa connessione intima ed evidente tra la criticità dei debiti pubblici e la solidità del sistema bancario non trova ad oggi risposte convincenti. Il fondo salva-stati è certamente una risposta, ma quanto tempestiva, quanto sufficiente nelle dimensioni? Il problema della Grecia, per esempio, non è più quanto sia assorbibile, ma quanto sia contagioso, quanto possa aprire uno scenario più drammatico. Ognuno ormai conviene che la dissoluzione dell’euro sarebbe una catastrofe vera e propria con esito impensabile, ma non si tirano ancora le conseguenze operative di interventi e di salvataggi che scongiurino il rischio. Difficile dare torto ad Obama in questo caso. Non si intravedono nemmeno politiche che diano finalmente coerenza alla scelta della moneta unica. E intanto le politiche di rientro e di rigore spingono a un ridimensionamento dell’attività economia e dell’occupazione.

L’Italia è nel cuore del cuore di tutto questo e si trova laddove non avrebbe dovuto essere, viste le condizioni in cui il centrosinistra lasciò la situazione e il governo quando vinse la destra. Bisogna sapere che anche al netto di un ogni possibile precipitazione che non possiamo escludere dall’orizzonte economico e politico, anche il solo protrarsi della situazione che viviamo adesso metterebbe a poco a poco il paese in ginocchio. Con gli spread a questo livello in modo duraturo, per esempio, il costosissimo e sempre più difficile approvvigionamento delle banche si scaricherebbe e si sta già scaricando sulle imprese che stanno riducendo e azzerando gli investimenti. Ne abbiamo segni molto ampi in alcune aree del paese, ma in modo anche diffuso. Quanto alla finanza pubblica, manovra dopo manovra, altro che decreti per la crescita: non c’è verità nella previsione di pareggio nel 2013 sia per l’iniquità e sia per l’approssimazione delle manovre, compresa l’ultima che presenta buchi a cominciare da cosa vuol dire tagliare sette miliardi dai ministeri e dal cosa vuol dire tirar fuori 16 miliardi dall’assistenza o dalle detrazioni fiscali. Peraltro, si attendono altre correzioni a causa di un’economia che ripiega. Si gonfiano così, pericolosamente, esigenze sociali che sono drammatiche e anche costose se si vogliono affrontare. Cito per tutte l’arrivo a scadenza di tutti gli ammortizzatori, a cominciare dalla cassa integrazione in deroga. Tra l’altro nessuno sa nemmeno quanti lavoratori siano in cassa in deroga, nemmeno l’Inps o il ministero sanno quanti sono e quanti scadono. E nel frattempo il peso delle manovre si sente, nelle famiglie, nei costi dei servizi, scuola, trasporti, andamento dei prezzi dopo l’aumento dell’Iva. La benzina ad un euro e 6 è un segnale inquietante.

Non voglio qui dettagliare ulteriormente. Voglio stare al punto politico di fondo. Siamo esposti ad un’ulteriore avvitamento della crisi. E questo avvitamento può dar luogo a fenomeni di opinione incontrollabili. E non è detto che questi fenomeni abbiano uno sbocco positivo. C’è anche la possibilità che prendano una piega populista, di destra o di sinistra. E’ davanti a questo punto che c’è l’elemento di fondo per noi: come si esce da questo rischio, qual è la nostra seria e anche drammatica responsabilità, che io definisco storica in questo passaggio perché siamo di fronte alla crisi più profonda dal dopoguerra ad oggi. E questa non può essere una giaculatoria. Deve metterci di fronte alla radicalità e alla profondità della sfida. Come esercitare questa nostra responsabilità? Io dico innanzitutto rafforzando l’asse della nostra politica mettendola all’altezza dei problemi. Avendo la percezione di quel che accade nel profondo del paese, che non è esattamente ciò che leggiamo ogni giorno sui quotidiani. Mantenere saldo il punto di fondo: avere un’iniziativa politica e un progetto che riescano a contendere questa emergenza con una fase di ricostruzione, che tengano assieme la dura consapevolezza che il paese ha di fronte con la fiducia e la speranza, con la certezza che uno dei paesi più forti e più ricchi del mondo possa ritrovare la sua strada. Questo tocca a noi. Non meno di questo, se vogliamo essere in qualche modo utili all’Italia. E su questo asse dobbiamo assumere una centralità del Pd e una centralità del progetto del Pd, un messaggio da dare agli Italiani: ricostruzione, ricostruzione della fiducia, ricostruzione della speranza, ricostruzione del paese. Macerie da sgombrare e un cantiere di riforme.

In primo luogo, la ricostruzione non è solo nazionale. Dobbiamo ripartire dal sogno europeo, da una concreta riforma che i partiti progressisti devono allestire. Abbiamo fatto passi in avanti, anche se forse troppo lenti. Quel che dicevamo sull’Europa un anno fa e che anche nel confronto con gli altri partiti progressisti sembrava velleitario, estraneo all’attenzione dello schieramento principale delle forze progressiste europee, ora sta facendo progressi. Lo stiamo registrando nei rapporti con questi partiti. Oggi appare più credibile la possibilità di impostare una posizione comune in vista degli appuntamenti elettorali previsti nei diversi paesi nei prossimi mesi. Ci abbiamo lavorato. E pensiamo che anche le nostre iniziative in Italia debbano avere questo segno, a cominciare dalla manifestazione del 5 novembre.

Qual è il valore del nostro sforzo nella dimensione europea? Due sono gli obiettivi. Primo: riabilitare l’Italia. Il nostro impegno per rilanciare il sogno europeo è la via che possiamo prendere per ripristinare il buon nome dell’Italia, nel ricordo di una tradizione di governo del centrosinistra che sapeva che cosa era il rigore, che cosa erano le riforme e che cosa fosse la prospettiva europea. Quindi una riabilitazione dell’Italia non con la psicologia stucchevole degli antitaliani e neanche con la condiscendenza a modelli caricaturali, ma con l’orgoglio di essere italiani. Quando ho lanciato la definizione dei democratici come patrioti e autonomisti non la reazione dei nostri circoli all’estero è stata entusiasta. E’ un messaggio importantissimo. Credo che possa trovare riscontro anche nell’opinione pubblica all’interno.

Secondo obiettivo: la possibilità di dare un contributo politico originale. Siamo tra i primi partiti progressisti in Europa e abbiamo sperimentato la possibilità di mettere in comunicazione culture politiche diverse sia sul piano nazionale sia sul piano internazionale. Possiamo aiutare ad allargare gli orizzonti, possiamo mettere a frutto la nostra esperienza, anche se ancora deve essere completata. Pensiamo soprattutto al rapporto tra partiti e società, che è lo stesso tema al centro di riflessioni in altri paesi, come testimoniano le primarie in Francia e la discussione che sta avvenendo nel Spd.

Ricostruzione dunque nell’ambito dell’Europa, come nel Mediterraneo, che poi è un'altra parte della nostra casa. Stiamo stringendo rapporti un con tutte le forze sella sponda Sud del Mediterraneo. Si voterà in una quindicina di paesi il prossimo anno. Comincerà la Tunisia, poi l’Egitto. In Libia la situazione è in forte evoluzione. E quindi prenderemo iniziative. Stiamo cercando di organizzare un viaggio in Libia, Tunisia, Marocco, dopo quello in Israele ed Egitto.

Insomma, mi fermo qui, riprendendo una frase della Marcegaglia, quando dice: “Siamo stanchi di essere lo zimbello del mondo”. La ricostruzione comincia da lì, dall’opinione che si ha dell’Italia nel mondo.

In Italia ricostruzione vuol dire in primo luogo è rilegittimazione dello Stato democratico. Suggerirei di prendere questa sfida dal fattore critico, che ci sta indebolendo come paese: abbiamo un governo che sopravvive a dispetto di tutto. Opposizione incapace e impotente? Molti altri sono arrivati oggi, con i loro tempi e i loro modi, a chiedere che il governo se ne vada. Sono tutti incapaci? Sono tutti impotenti? Anche dal punto di vista internazionale il quotidiano disvelarsi di fatti che porterebbero alle dimissioni qualsiasi governo del mondo, significa che tutto il mondo è incapace? E sarà dunque la rabbia qualunquistica l’esito politico di questa situazione? Sentiamo forte questa sensazione nel paese. Per noi è l’occasione, per quanto difficile e ardua, di giocare in contropiede. Per portare una razionalità combattiva. E dunque per prima cosa dobbiamo rivendicare quel che abbiamo detto e fatto in questi anni. Fino a quindici giorni fa non tutti dicevano che il governo deve andare a casa perché ci avrebbe portato al disastro. Noi abbiamo tenuto un pensiero critico quando tutti applaudivano. E sto parlando di cose concrete, non della generica voce dell’opposizione: dicemmo che era assurdo finanziare gli straordinari; dicemmo di fare piccole opere per dare un po’ di lavoro; dicemmo: perché cancellate la tracciabilità? Dicemmo che quella della scuola non era una riforma; dicemmo che era ora di dare un’occhiata ai patrimoni immobiliari sul versante della tassazione. Cose sulle quali stanno arrivando tutti e che noi abbiamo indicato tre anni fa, due anni fa, un anno fa. Questo ci consente anche di dire, quando ci accusano di non avere proposte: che cosa avete detto allora? Dobbiamo controbattere in modo combattivo.

Il secondo punto di attacco di questo contropiede è: chiarire il problema democratico. Ogni paese democratico al mondo ha una flessibilità istituzionale e politica che, senza ignorare il dato elettorale, consente di tenere conto di drammatiche cadute del consenso o di drammatiche novità dovute all’emergenza. Noi no. E’ tempo di ricordare al paese perché: se Berlusconi si è inchiodato alla sedia è perché il paese si è inchiodato a Berlusconi. Quindici anni fa, davanti al vuoto ed alla delegittimazione della politica, l’Italia non ha avuta la forza di scegliere una riforma della democrazia rappresentativa e ha scelto invece un’illusoria scorciatoia di un populismo che ci ha allontanato dagli altri paesi democratici. Dobbiamo andare a fondo di questa questione, semplificandola per spiegarla, perché non tutti fanno i costituzionalisti. Da qui le parole d’ordine: via i nomi dal simboli; salvatori della patria non ci sono; se ci si salva, ci si salva tutti assieme; se Zapatero può anticipare le elezioni è perché ha un partito; se Grecia, Irlanda, Portogallo hanno cambiato governo o anticipato elezioni è perché hanno un sistema rappresentativo sano, perché non si sono inchiodati. E’ evidente che nella crisi, nella disaffezione del dopo Berlusconi, c’è ancora più insofferenza, più distacco. E quindi emergono radicalismi, qualunquismi. E’ tutto questo che dobbiamo prendere in contropiede: le scorciatoie ci hanno allungato la strada. Le critiche alla politica sono comprensibili in questa fase. Ma vanno prese dal lato di chiedere e di ottenere una buona politica. L’alternativa è fare il già visto, reinventarsi l’eccezionalità italiana, tornare sulle strade che ci hanno portato a Berlusconi.

Vogliamo conservare il “ghe pensi mi”, le leggi elettorali e le leggi ad personam, una partitocrazia senza partiti o vogliamo fare davvero quello che ci manca, quello che in questi quindi anni non è stato fatto? Noi dobbiamo promettere questo scatto in avanti, riforme alla mano, proposte precise: Stato più leggero e autorevole; politica più sobria; legge elettorale; nuovo patto fiscale; semplificazione istituzionale; ruolo dei partiti garantito da una legge in attuazione della Costituzione, e così via. Vogliamo o no rilegittimare lo Stato democratico? Questo poi ha mille corollari, a cominciare dal rapporto tra lo Stato e l’economia. Via le intermediazioni, opzioni liberali, automatismi. E assieme però la ripresa di una capacità di iniziativa strategica e di indirizzo sui temi economici: che si parli di nuove tecnologie, di rete, di Nord-Sud.

Ricostruzione interna vuol dire anche proiettare un nuovo modello culturale nelle parole di fondo: lavoro, conoscenza e solidarietà contro un modello ingiusto e inefficiente individualista, privatista e corporativo, prono ai privilegi e all’egoismo sociale. Basta. La persona come snodo delle relazioni. Regole, coesione, unità del paese, equità, sforzo comune. E anche qui si parli di fisco, welfare, accesso all’istruzione. Dobbiamo mettere in competizione questi due modelli. E dobbiamo cogliere i movimenti positivi che ci sono. Per esempio, l’accordo tra le parti sociali del 28 giugno. Noi partiremo da lì, da quello sforzo positivo per rinnovarlo implementarlo, perché può recuperare flessibilità e produttività senza atomizzare le relazioni sociali, senza balcanizzare il paese. Oggi la Fiat ha chiarito che esce dalla Confindustria. Bisogna chiarire da che parte ci mettiamo.

Siamo pronti a confrontarci con le autonome assunzioni di responsabilità che oggi vengono scambiate contro la politica in nome di un far da sé delle forze sociali in nome dell’impotenza della politica, ma che domani potranno e dovranno dare una mano in una corresponsabilità forte, in una fase di concertazione. Ci confronteremo sui cinque punti proposti dalla Confindustria. Si vede ad occhio dove sono oggettivamente possibili le convergenze. Per esempio sulla parte fiscale quei cinque punti ricalcano gli emendamenti che abbiamo presentato noi. E si vede anche dove è difficile trovare una convergenza, o dove bisogna fare di più. Prendiamo le liberalizzazioni. Vanno bene le professioni, vanno bene i servizi locali, ma io dirò qualcosa che disturberà anche qualche associato della Confindustria, perché anche il settore dei carburanti deve essere liberalizzato. Insomma, avremo un confronto. Serio, concreto, diverso certo dalla rappresentazione che ne fanno alcuni. Ho letto oggi il più grande giornale nazionale che dice il Pd spaccato in tre sui punti della Confindustria. Trovo tutto questo un po’ stucchevole e anche un po’ patetico.
Allo stesso tempo dobbiamo cogliere i fermenti nuovi che si colgono nel mondo cattolico, nella Chiesa italiana. L’offerta politica e culturale del Pd deve poter incrociare le straordinarie risorse presenti nella religione e nel mondo culturale cattolico. Il Pd, cioè tutti noi assieme, che siamo un partito di laici e di cattolici che non annacqua i valori ma li porta tutti all’incontro sulla base di una forte impostazione umanistica, si apre sulla base di una orgogliosa autonomia della politica, che dichiara i propri limiti ma sa esercitare anche una mediazione tra realtà e valori.

Da un lato, insomma, c’è il modello individualista e privatista, dall’altro il nostro modello solidaristico e coesivo. Questi sono secondo me i due grandi crinali. Naturalmente tutto questo si tratta di renderlo esigibile nel merito delle proposte. Nel metterle a punto dobbiamo avere capacità di ascolto, ma anche una grande autonomia di pensiero, che si tratti di fisco e lotta all’evasione e di riequilibrio del prelievo, di lavoro di battaglia per la dignità del lavoro e contro la precarietà, di pensione e riqualificazione del welfare, di liberalizzazioni, privatizzazioni, del Mezzogiorno o di efficientamento della Pubblica Amministrazione. Noi abbiamo le condizioni per una nostra proposta. Ancora non ci siamo del tutto, ma abbiamo acquisito già molti punti fermi. Ci lavoreremo ancora. Le nostre organizzazioni, regionali e provinciali, che abbiamo incontrato in questi giorni, dicono che le nostre elaborazioni arrivano già alla società. Bisogna dunque che ora il gruppo dirigente si faccia carico di dare una lettura unica, per quel che abbiamo acquisito fin qui. Si tratta di affinare e di approfondire alcuni punti. Ma sui temi fondamentali dobbiamo avere una unicità che può poggiare su un certo grado di elaborazione.

Ricostruzione della fiducia e della speranza, ricostruzione del paese: deve essere chiaro che questa operazione va ben oltre Berlusconi e vuole andare a fondo delle ragioni sociali e culturali che ci hanno portato al berlusconismo. E’ una operazione che richiede in tempi non lunghi una legittimazione democratica e un concorso consapevole dell’elettorato, le elezioni insomma. E’ un appuntamento che può farsi più prossimo, al quale vogliamo arrivare con il nostro progetto. Nello stesso tempo ribadiamo che per noi non ci sono ostacoli alla possibile novità di un governo di emergenza e transizione che potesse consentirci un passo in quella direzione. Chiedo che venga tenuto fermo questo modo di ragionare. Siamo in una situazione confusa. Ogni giorno partiranno tatticismi di ogni genere. Ma bisogna avere una rotta chiara. Non ci può essere ricostruzione senza una ripartenza del paese che muova da una grande partecipazione consapevole degli italiani. Tuttavia, si possono sgombrare le macerie, affrontare l’urgenza, allestire una nuova legge elettorale. Se teniamo ferma questa impostazione usciamo fuori dai tatticismi.

Un’operazione di ricostruzione così profonda richiede una proposta politica coerente, cioè una proposta che si esprima in modo largo anche rispetto al perimetro delle forze politiche. Dobbiamo trovare il modo di far capire che il Pd si propone come un’infrastruttura al servizio di una riscossa civica di questo paese: associazioni, movimenti, personalità. C’è bisogno di mettere in connessione politica e società civile. Dobbiamo fare un appello al paese e metterci al servizio della ricostruzione. E’ solo dentro questo ambito che c’è anche la relazione con le altre forze politiche e il problema delle alleanze. Ciò significa incalzare le forze del centrosinistra a porsi all’altezza della responsabilità di governo. Qui non basta imbastire cartelli tra chi è contro. Ci vuole un patto vero di governo, quello che abbiamo chiamato Nuovo Ulivo, che parta dai programmi, che sappia mettere in chiaro i punti critici e dire parole univoche al paese. I punti critici sono i rapporti internazionali, il 28 giugno, come si affronta il risanamento, i temi istituzionali e elettorali. E mi fermo qui. E’ un rapporto che non si può realizzare ed estendere a tutti i prezzi, ma per il quale lavoriamo, che ci interessa. Non credo che occorra spiegare il perché. Basterebbe volgere lo sguardo al percorso fatto fin qui, alle amministrative, per i referendum. La nostra proposta è quella di un approfondimento programmatico serio. Il nostro appello è di non avere giochi allo scavalco per avere lo 0,5 per cento in più. Si verifichino fino in fondo le possibilità di un programma comune ed esigibile, perché se facciamo finta rischiamo di tornare al vecchio.

A partire dal centrosinistra la nostra aspirazione è di tenerci larghi nel nostro appello e di tenerci agganciate le forze moderate nella strada verso la ricostruzione. Questo è il nostro appello, generoso, a quelle forze che non si riconoscono nel centrosinistra, ma che riflettono, discutono, vogliono superare l’esperienza di Berlusconi, l’esperienza populista. Questo è il nostro orizzonte. E dobbiamo tenerlo fermo comunque sia, se l’obiettivo è di ricostruire il paese nel profondo. Il problema non è adesso chi ci sta o chi non ci sta. Adesso bisogna fare un appello largo al paese. Noi stessi dobbiamo guardarci dal dare l’impressione, profondamente falsa, che ci siano potenziali interlocutori di una parte o dall’altra, che bisogna prendere una strada o l’altra. Non è vero. Siamo noi che dobbiamo dire quale è la strada. Dobbiamo mettere a frutto la novità, che è il Partito democratico, per fare le riforme. Altrimenti buttiamo via il lavoro che abbiamo fatto. E su questo bisogna che siamo tutti uniti.

Su un tale asse il nostro programma di lavoro nei prossimi mesi sarà molto intenso. L’abbiamo valutato insieme con i segretari regionali e i provinciali. Ci sono comprensione, condivisione, disponibilità. Ma lo sforzo sarà grande. Sono appuntamenti di natura settoriale, dal tema delle piccole imprese agli stati generali della cultura. Sono appuntamenti di mobilitazione: a metà ottobre in tutti i territori. Come riferimenti i temi sociali, la scuola, i trasporti, le autonomie. A fine ottobre avvieremo a Napoli la formazione di duemila giovani del Mezzogiorno. Siamo l’unico partito che può prendere in mano un’idea nazionale. Ma non è facile, perché viviamo in questa Italia e gli anni passati hanno creato problemi culturali e di comunicazione profondi. Il 5 novembre abbiamo l’impegno straordinario della manifestazione a piazza San Giovanni a Roma. Infine, dobbiamo organizzare una convenzione per il progetto di governo, un appuntamento aperto agli apporti dall’esterno.

In questo percorso dobbiamo mettere anche il nostro impegno per la conferenza sul partito. Faremo su questo tema una riunione della direzione a novembre. Poi vedremo il calendario in ragione delle evenienze.

Può sembrare che mettiamo in accostamento il tema Italia e quello del partito, ma non c’è contraddizione: quando discutiamo del partito noi pensiamo all’intero sistema rappresentativo con partiti moderni nel nostro paese. Se siamo solo noi a riformarci non faremmo un vero passo in avanti: possiamo avere il partito più aperto e partecipato, ma se gli altri restano così, rischiamo di trovarci in un sistema che resta inchiodato lo stesso, anche se il Pd fosse il partito più aperto e più partecipato. Noi dobbiamo avere un obiettivo sistemico. Il primo passo è una legge sui partiti, in applicazione dell’articolo 49 della Costituzione.
Questo di migliorarci è un tema che ha principalmente un risvolto politico, ma riguarda anche aspetti statutari, sui quali dobbiamo riflettere. Per esempio, su come inserire i territori nei luoghi di direzione. O su come avviare sperimentazioni sui rapporti tra partito e società. Qui metto una parentesi sulla questione del referendum sulla legge elettorale. Ricordo che noi potevamo anche avere una situazione nella quale il Pd non aveva un progetto di legge e finiva diviso tra i sostenitori di diversi referendum. Anche se in una maniera complessa, siamo arrivati al punto nel quale noi, a differenza si altri, abbiamo una proposta di legge condivisa e abbiamo dato opportunità e sostenuto alla raccolta delle firme. Per questo non capisco le polemiche, a meno che non debba essere solo io a curare la funzione della ditta. Ma ricordo ancora che noi siamo uno strumento per questo paese e indebolire questo strumento è un male per l’Italia. Io credo che il Pd abbia tenuto una posizione da rivendicare. Ma dico di più. Nella discussione sul partito dobbiamo trovare l’equilibrio del rapporto tra la politica e la società. Non è un tema da poco. Oltre a fare il nostro mestiere, cioè fare le proposte, avere un progetto unitario per il paese, sostenere i governi, dobbiamo essere una infrastrutture al sostegno delle buone pratiche della società civile. Può essere il caso dei referendum, ma non solo. Per esempio, nei prossimi mesi e in una campagna elettorale che potrebbe arrivare, noi dovremo avere lo sguardo largo in vista della ricostruzione, a partire dai territori, dai nostri circoli, che devono essere aperti alla società, sostenendo le iniziative, ospitando associazioni territoriali. Dobbiamo cogliere l’occasione della conferenza sul partito per dare una spinta al rinnovamento.
Infine, vorrei soffermarmi sul tema dei comportamenti. Siamo di fronte ad un passaggio stringente. Voglio essere molto chiaro. Cominciano ad avvicinarsi su scala locale, scala regionale, scala nazionale, appuntamenti elettorali, scadenze. Di fronte a questi passaggi dobbiamo evitare che prendano corpo elementi dissociativi. Sul piano politico occorre evitare che nostre organizzazioni si facciano cogliere su vicende che appaiono autoreferenziali. Non è possibile restare chiusi a fare le primarie per scegliere un segretario regionale, mentre l’Italia è in mezzo al guado e noi parliamo di ricostruzione. Lo dico per buonsenso. E infine parlo dei comportamenti che riguardano i nostri gruppi dirigenti. Massima attenzione a dichiarazioni di cui non si calcola bene la misura. Abbiamo migliorato. Ma stanno arrivando passaggi complessi.

In nome del buon lavoro che abbiamo fatto tutti assieme
, prendiamoci tutti assieme le nostre responsabilità.