Avevamo tutti sperato che le reazioni dei mercati all'approvazione della manovra finanziaria in Senato (la Camera la voterà nei prossimi giorni) potessero essere positive: di destra o di sinistra, di maggioranza o di opposizione, siamo tutti italiani e non possiamo che fare il tifo per la barca in cui siamo tutti insieme, certo non per le onde che vorrebbero rovesciarla.
Giorgio Tonini, "L'Adige", 10 settembre 2011
Non è andata così. La tregua è durata ventiquattro ore. Poi sono bastate le dimissioni di un alto funzionario tedesco della Bce per far precipitare la borsa e allargare di nuovo, a livelli insostenibili, la distanza tra gli interessi dei nostri Btp e quelli dei Bund tedeschi. Ha avuto dunque ragione il presidente Napolitano, che lunedì sera, in pieno terremoto finanziario aveva chiesto al governo di rafforzare la manovra. Ma è ormai chiaro a tutti, forse lo sta diventando anche a Berlusconi, che la ragione della drammatica crisi di fiducia che ha colpito l'Italia ha come epicentro Palazzo Chigi, o forse sarebbe meglio dire Palazzo Grazioli. Senza un nuovo governo e un nuovo presidente del Consiglio l'Italia non può tirarsi fuori dai guai. Ma è la stessa manovra a non convincere.
Appena sufficiente sul piano quantitativo (almeno speriamo), a causa delle contraddizioni interne alla maggioranza e allo stesso governo e alla caduta verticale della leadership di Berlusconi, la manovra appare del tutto carente su quello della qualità delle misure adottate: l'obiettivo, di per sé storico, del pareggio di bilancio, da raggiungere già nel 2013, viene infatti perseguito facendo leva su misure più congiunturali che strutturali; e soprattutto ricorrendo per due terzi all'aumento delle entrate (36 miliardi di aumento di tasse) e solo per un terzo alla riduzione della spesa (18 miliardi). Il rischio di una siffatta composizione della manovra, che porta la pressione fiscale in Italia al livello record del 44 per cento, è quello di amplificarne gli effetti depressivi sulla crescita, trasformando la stagnazione in atto in una nuova recessione.
Se davvero dovesse andare così, l'effetto della manovra del governo, finirebbe per assomigliare a quello di una terapia del dolore somministrata ad un malato terminale. Per scongiurare questo pericolo, mi pare si debbano fare due cose, qualunque sarà il governo che avremo nelle prossime settimane. La prima è valorizzare al massimo le parti buone della manovra, che pure ci sono: a cominciare dalla vera e propria riforma della spesa pubblica, introdotta con un emendamento del PD (primo firmatario Enrico Morando), che il ministro Tremonti ha avuto l'intelligenza di accogliere. L'approvazione dell'emendamento Morando è stata una specie di rivincita postuma del compianto Tommaso Padoa-Schioppa, ministro dell'Economia nell'ultimo governo Prodi, sul suo attuale successore.
Fu Padoa-Schioppa infatti a parlare per primo, in Italia, di riduzione della spesa attraverso la cosiddetta «spending review» e non con l'inefficace, tradizionale metodo dei «tagli lineari» rilanciato in grande stile da Tremonti, in questi tre anni, coi risultati che sono sotto gli occhi di tutti. I tagli lineari sono una sforbiciata sulle spese «non obbligatorie» di tutti i settori dell'amministrazione, che nella loro struttura vengono lasciati come sono. I risultati sono noti: si tagliano in modo indifferenziato spese pregiate e spese superflue; e la spesa complessiva continua a crescere, perché la forza di quella «obbligatoria» è micidiale, in rapporto alla quota discrezionale. Con la «spending-review» si capovolge la logica: invece di tagliuzzare in superficie, facendo soffrire senza guarire, si interviene col bisturi in profondità, riformando tutti i meccanismi di spesa, come fa qualunque azienda quando decide una ristrutturazione per uscire da una crisi.
Per capire la differenza tra questi due approcci, basti applicarli, per esempio, ad un settore strategico come quello delle forze dell'ordine: coi tagli lineari si riducono gli stanziamenti ai diversi corpi di polizia, mettendoli tutti in difficoltà e senza produrre veri risparmi; con la «spending review» i risparmi, veri e duraturi, devono venire, se non da una fusione, almeno nell'immediato, da una nuova, più razionale e quindi efficiente, distribuzione dei compiti tra i diversi corpi, evitando le attuali, assurde, sovrapposizioni. Naturalmente, la «spending review» è dolorosa e faticosa, proprio come una ristrutturazione aziendale: portata avanti con costanza e tenacia, può tuttavia produrre significative riduzioni della spesa, senza ridurre, ma anzi migliorando, quantità e qualità dei servizi prodotti dal sistema pubblico.
La seconda cosa da fare è affiancare alla «spending review» altre misure di carattere strutturale, volte a migliorare la qualità della nostra finanza pubblica. Come stanno facendo tutti gli altri Paesi europei, su sollecitazione dei tedeschi che sono stati i primi, va inserito nella nostra Costituzione, come valore condiviso e prezioso bene comune, il principio del pareggio strutturale di bilancio, come aveva proposto Beniamino Andreatta già a tempi della Commissione Bozzi (trent'anni fa, quanto tempo perso!). Nella Costituzione va anche introdotto il dimezzamento dei parlamentari e la soppressione delle Province.
Non meno importante, ai fini della nostra credibilità (e per un paese indebitato come il nostro la credibilità vale più dell'oro) è portare nei fatti l'età di pensionamento ai livelli in vigore nei paesi europei più virtuosi. È ora e tempo, per essere chiari, di chiudere la lunga transizione prevista dalla riforma Dini, passando tutti e subito, a cominciare dai parlamentari, al metodo di calcolo contributivo; e applicando al minimo e al massimo dell'età pensionabile previsti dalla stessa legge Dini (57-65 anni), l'aumento derivante dall'innalzamento dell'aspettativa di vita (61-68 anni).
Non farlo, significa scaricare sui giovani un costo insostenibile e alimentare nei paesi del Nord-Europa, a cominciare dalla Germania, un sentimento antieuropeo. Accanto al pareggio di bilancio, va perseguito l'obiettivo di una forte riduzione del debito, in modo da accelerarne il rientro sotto la soglia del 100 per cento del pil e verso quella fisiologica del 60. A questo può servire un piano di dismissioni di patrimonio pubblico. E a questo deve servire un'imposta straordinaria sui grandi patrimoni privati, quel 50 per cento della ricchezza privata (circa otto volte il pil) detenuto dal 10 per cento delle famiglie.
Ridurre il debito significa ridurre la spesa per interessi, che oggi viaggia verso i 100 miliardi l'anno, liberando risorse per ridurre la pressione fiscale sul lavoro, sulle famiglie e sulle imprese, per rilanciare gli investimenti infrastrutturali e produttivi e per rifinanziare i servizi sociali. La manovra ha interessato anche il sistema delle autonomie, comprese quelle speciali come la nostra. È stato importante che il parlamento, nella sede della Commissione bilancio del Senato, all'unanimità, abbia inserito nella manovra una norma, in un primo tempo omessa dal governo, di salvaguardia della specialità, prevedendo che l'apporto delle regioni a statuto speciale e delle province autonome debba essere reso in forme rispettose dell'autonomia.
È bene tuttavia non farsi illusioni: il tempo della «spending review», di una coraggiosa e incisiva riforma dei meccanismi di tutta la spesa provinciale (e comunale) è arrivato anche per noi. Mai come oggi sono state attuali le famose parole pronunciate da Degasperi nel corso della seduta del 29 gennaio 1948 dell'Assemblea costituente: «le autonomie si salveranno, matureranno, resisteranno, solo a una condizione: che dimostrino di essere migliori della burocrazia statale, migliori del sistema accentrato statale, migliori soprattutto per quanto riguarda le spese. Non facciano la concorrenza allo Stato per spendere molto, ma facciano in modo di creare un'amministrazione più forte e che costi meno. Solo così le autonomie si salveranno ovunque, perché se un'autonomia dovesse sussistere a spese dello Stato, questa autonomia sarà apparente e non durerà per un lungo periodo».