Michele Nardelli, "L'Adige", 24 agosto 2011
Il risanamento del bilancio dello Stato e il pareggio di bilancio a partire dal 2013 richiedono una mobilitazione del paese rispetto alla quale nessuno può chiamarsi fuori.
Per raggiungere questo risultato sono necessari interventi immediati e scelte strutturali, capaci cioè di metterci nelle condizioni di rafforzare e riqualificare l'economia vera rispetto a quella di carta, ovvero quei processi di finanziarizzazione che la rendono vulnerabile rispetto alla turbolenza del mercato finanziario globale. Con un'accortezza, però. Che gli interventi dell'emergenza non contraddicano le scelte di fondo.
Occorrono scelte lungimiranti piuttosto che tagli indirizzati semplicemente a far cassa, in un quadro di sobrietà, di responsabilità e di equità. E assumendo come cornice tanto la dimensione europea - piuttosto che quella nazionale, sempre più inadeguata ad affrontare le sfide della globalizzazione - quanto quella territoriale, perché è sul piano locale che l'economia può ritornare alla realtà, ad una dimensione vera fatta di terra, materie prime, lavoro, esperienza, genio, cultura.
Investire sull'economia reale è un messaggio semplice che tutti possono capire. Se le nostre economie sono vulnerabili lo si deve principalmente a due fattori: la tentazione del facile guadagno rappresentato dalla rendita finanziaria, che ha sottratto ingenti somme alla ricerca e all'innovazione; la conseguente dequalificazione delle produzioni in un contesto di concorrenza globale. Anche per questo è necessario valorizzare l'unicità delle produzioni, quel che può venire dal fatto che questo paese ha condizioni particolari e straordinarie biodiversità, da saperi e tradizioni uniche, ma anche da una storia al centro del Mediterraneo che ne fa la più importante riserva di beni culturali al mondo. Insomma, sottrarre il mercato alla finanza, che iscrive alla crescita tutto quel che rientra artificiosamente nel PIL.
Uno scarto che riguarda anche le scelte immediate. Tanto per evitare ogni equivoco, dico subito che fra tassare i grandi patrimoni o intervenire sulle pensioni non ho dubbi, considerato poi che dovrebbe essere normale visto quel che recita la Costituzione Italiana all'articolo 53: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Chi più ha, più paghi.
Anche nel tagliare la spesa pubblica è necessario avere accortezza. Ad esempio, tagliare i costi della politica non deve significare tagliare la politica. E' bene tagliare gli sprechi e i privilegi (solo i 2.238 assegni vitalizi e il migliaio di reversibilità degli ex parlamentari costano ogni anno ben 218 milioni di euro), ma non le istituzioni partecipative, ovviamente quando sono espressione di autogoverno locale, perché la coesione sociale non ha prezzo. E perché di fronte al peso sempre più rilevante della speculazione finanziaria, abbiamo bisogno di più (e non meno) politica. Servirebbe per la verità "buona politica", ma questo dovrebbe interrogarci sulla fatica della partecipazione, dello studio, della formazione, del fatto che la politica è tanto più buona quanto meno segue la logica della ricerca del consenso ad ogni costo.
Potrei fermarmi qui. E però voglio portare l'attenzione dei lettori su un aspetto che mi sembra sia diventato oggi un vero e proprio tabù, le spese militari. Il nostro paese spende ogni anno in questo campo almeno 23,5 miliardi di euro, ai quali si devono aggiungere i costi delle cosiddette "missioni di pace" (finanziate con decreti ad hoc), le spese per sviluppo di armamenti (riportati nel Bilancio del Ministero delle Attività produttive), i finanziamenti diretti o indiretto dello Stato a favore dell'industria militare nazionale e per prodotti "dual use" (militare e civile) e la spesa di quella parte dell'Arma dei Carabinieri che di fatto svolge compiti militari.
Non si deve dimenticare inoltre il programma pluriennale per l'acquisizione dei centotrentuno cacciabombardieri F-35, per una spesa prevista di 16,5 miliardi di euro. Sono sistemi d'arma da attacco "stealth" (invisibili ai radar) di ultima generazione giudicati "uno sfizio tecnologico strategicamente inutile" da molti esperti militari. Lo stanziamento previsto da qui al 2013 per questo programma è di 3,6 miliardi di euro, ai quali potremmo aggiungere le spese per altri sistemi d'arma previsti nel 2011 come i centosedici elicotteri da assalto Nh-90 (310 milioni), i due nuovi sommergibili U-212 (164 milioni) e i sedici elicotteri da trasporto truppe Ch-47 (137 milioni). Tanto per fare un paragone, i costi di funzionamento degli organi istituzionali relativi alle Province italiane (di tutte, non solo quelle sotto i trecentomila abitanti) ammontano a 434 milioni di euro.
Come si può capire, basterebbe un taglio del 20% delle spese militari e la cancellazione del programma dei cacciabombardieri per darci nel biennio 2012/2013 un risparmio di 15,6 miliardi di euro. Non mi pare fuori dal mondo.
E poi c'è anche un altro aspetto. Da più parti si è posto giustamente il tema dell'inadeguatezza degli stati nazionali nell'affrontare un contesto sempre più globale. E' il grande tema dell'Europa, della sua integrazione politica come condizione per una sua vera integrazione economica. Mi chiedo perché non si possa avere un sistema di difesa integrato sul piano europeo, visto che ogni anno i paesi dell'Unione spendono qualcosa come 177 miliardi di euro per i propri eserciti nazionali. E' fuori dal mondo pensare anche ad una difesa di carattere europeo?
Le armi sono parte integrante di quel processo di finanziarizzazione dell'economia che si regge sulla deregolazione del pianeta. Tagliare sulle spese militari, invece che sulle pensioni e sugli enti locali, significa investire nell'economia vera, quella che valorizza le caratteristiche dei territori, le risorse naturali e culturali.
"Prendersi cura della terra... " suggerisce Ugo Morelli in "Mente e paesaggio" (Bollati Boringhieri, 2011): di fronte ad un sistema impazzito che in un giorno d'agosto brucia somme enormi ed investe con i "derivati" sulla siccità, sulla miseria e sulla guerra, mi sembra l'unica risposta saggia. Per far questo serve un po' di coraggio, una riconversione del nostro modo di leggere l'economia, una visione insieme europea e territoriale. Un cambio di pensiero.