Democrazia dell’alternanza e decisione politica

Uno dei padri fondatori del Partito democratico, Alfredo Reichlin, ama ripetere, assai opportunamente, che l'identità di un partito non è definibile in astratto, ma può essere ricavata induttivamente da un'analisi della sua funzione storica: dimmi a cosa servi, o almeno a cosa vorresti servire, e ti dirò chi sei.
Giorgio Tonini @ tamtàm democratico, 9 agosto 2011

Quel che vale per l'identità, vale a maggior ragione per la forma organizzativa di un partito politico: non se ne può discutere in generale, quasi si trattasse di un a priori, ma se ne deve ragionare in relazione agli obiettivi politici che si intendono raggiungere, o meglio ancora (e di nuovo), alla funzione storica che si nutre l'ambizione di esercitare.

La funzione storico-politica che il PD si propone di svolgere è molto ambiziosa: organizzare le idee e le forze necessarie ad avanzare al paese una proposta di governo, per usare le parole di Giorgio Napolitano, "credibile, affidabile, praticabile", al punto da risultare all'altezza dell'obiettivo storico di salvare e rilanciare l'Italia nel più ampio contesto europeo.
Uso la parola "salvare" non a caso: la crisi politica che da più di un anno affligge la maggioranza di governo e che le ha nei fatti impedito di affrontare con la necessaria lucidità e fermezza la più grave crisi economica del dopoguerra, sta in questi giorni minacciando di degenerare in una vera e propria emergenza finanziaria, che potrebbe mettere a repentaglio la tenuta dello Stato italiano e, a causa del peso demografico, economico e politico dell'Italia, lo stesso progetto europeo, a cominciare dall'Unione monetaria. La responsabilità del PD si fa quindi, se possibile, più gravosa e più urgente.
La prima condizione per mettere in sicurezza l'Italia e rilanciare le sue prospettive di sviluppo è avere chiara la consapevolezza che il superamento del berlusconismo ne costituisce la condizione necessaria, ma tutt'altro che sufficiente. Il berlusconismo non è infatti, come è ormai evidente ad una larga maggioranza degli italiani, la soluzione; ma non è neppure la causa (piuttosto ne è un sintomo aggravante), del problema di fondo col quale, sin dalla sua nascita, deve fare i conti la nostra democrazia: la sua incapacità strutturale di fare sintesi, di prendere decisioni, nel segno dell'interesse generale, oltre la tirannia degli interessi particolari, settoriali, territoriali.

Il debito pubblico altro non è, in definitiva, che la traduzione in numeri, sempre più grandi e insostenibili, di questa prevalenza dei vested interests, degli interessi corporativi "corazzati" e del loro predominio sulla spesa pubblica, in barba a qualunque criterio sia di efficienza che di giustizia, complice una politica debole e corriva, quando non corrotta, non solo incapace di imporre il primato dell'interesse generale, a cominciare dall'equilibrio dei conti dello Stato, ma spesso attivamente impegnata a trasformare le risorse collettive in benefici privati, più o meno estesi, anziché in beni pubblici. Il fulmineo, ma non per questo meno istruttivo, dibattito parlamentare sulla manovra finanziaria 2012-2014, con le rivolte parallele di avvocati e notai da una parte e parlamentari e amministratori provinciali dall'altra, entrambe andate a segno, ne è stata l'ultima, eloquente conferma.

Si tratta di un'analisi non nuova. In termini non molto diversi, fu proposta, per ultimo anche da chi scrive, vent'anni fa, nel pieno della crisi della cosiddetta Prima Repubblica e della ricerca di un passaggio oltre la crisi stessa, verso un nuovo sistema istituzionale, segnato dal maggioritario e dalla legittimazione diretta degli esecutivi, a cominciare dai sindaci, e da un nuovo sistema politico, caratterizzato da partiti nuovi, post-ideologici, pluralisti, programmatici, organizzati in coalizioni pre- e non più post-elettorali.
La constatazione che il problema di fondo della politica italiana, la sua incapacità di organizzare il consenso attorno ad obiettivi di interesse generale, anziché attorno alla spartizione corporativa delle risorse, è alla radice della crisi della Seconda Repubblica, come fu di quella della Prima, propone due conclusioni difficilmente contestabili: la prima è che la Seconda Repubblica, la Repubblica del maggioritario e degli esecutivi legittimati in via diretta dal corpo elettorale, la Repubblica del bipolarismo fondato su coalizioni vaste e partiti deboli e cangianti, la Repubblica del berlusconismo e dell'anti-berlusconismo, non ha mantenuto le sue promesse, ma è andata incontro ad un sostanziale fallimento; la seconda è che non c'è nessuna Prima Repubblica da rimpiangere, non solo perché la storia non si fa coi rimpianti (sono più costruttivi perfino i rimorsi), ma soprattutto perché quella stagione politica, che pure ha prodotto risultati storici di straordinario rilievo (basti pensare alla sapiente gestione della questione comunista) aveva a sua volta già fallito proprio sul terreno della frammentazione corporativa degli interessi e della loro irriducibilità a sintesi virtuose, rispettose del primato del bene comune.

Le radici di questo storico fallimento, di un'esperienza per altri aspetti di successo come la Prima Repubblica, sono molto profonde. Sul piano istituzionale, affondano in quello che Giuseppe Dossetti, nella celebre lunga intervista rilasciata (insieme a Lazzati) a Elia e Scoppola (e pubblicata in un volumetto dall'editrice "Il Mulino" nel 2003) definì "il carattere eccessivamente garantista della [seconda parte della] Costituzione": una torsione iper-liberale dell'impianto istituzionale della Repubblica, frutto "dell'eccesso di paura dell'altro", che influenzò sia De Gasperi che Togliatti, in stridente contraddizione con il carattere marcatamente democratico della prima parte della Carta, quella che assegna alla Repubblica, col secondo comma dell'articolo 3, il compito di "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale" all'uguaglianza sostanziale tra i cittadini.

Alle radici istituzionali della debolezza della Prima Repubblica, aggravata dalla legge elettorale più proporzionalistica del mondo, si sommano quelle prodotte dal sistema politico. Già nel 1970, nella voce "Forme di governo" della Enciclopedia del Diritto, Leopoldo Elia sosteneva che, nella storia politica dell’Italia del dopoguerra, si deve distinguere “tra un periodo 1948-1953 (o di parlamentarismo all’inglese), nel quale la leadership degasperiana risultava assai simile a quella accettata nel sistema britannico; e un periodo successivo nel quale il funzionamento delle istituzioni politiche si sarebbe avvicinato sempre più ai moduli della Quarta Repubblica francese. Ma è chiaro che rispetto al periodo 1948-1953 quello successivo assai più lungo fa figura di regola in confronto all’eccezione e, soprattutto, riesce impossibile limitare l’instabilità governativa a fasi transitorie”.

In altre parole, con l’uscita di scena di De Gasperi, che col suo carisma personale compensava i limiti del sistema politico-istituzionale, l’instabilità dei governi e la debolezza della leadership di governo diventano la regola della politica italiana. Un destino che l’Italia ha pagato caro. Certo, i governi deboli hanno evitato una più dura contrapposizione tra comunisti e anti-comunisti, scongiurando all’Italia uno scenario non impossibile di guerra civile: la stessa minaccia del terrorismo, che ha insanguinato il Paese negli anni Settanta e Ottanta, è stata sconfitta grazie alla tenuta del patto costituzionale tra le grandi forze politiche. Ma l’altra faccia di questa medaglia è stata la cattiva qualità del governo. Come scrive ancora Elia, “l’incapacità della Democrazia cristiana di conferire uno status degasperiano a chi ha tentato con maggiori o minori titoli di raccoglierne la successione” ha impedito “quella accumulazione di autorità personale che è indispensabile (al di là di ogni discorso sulla personalizzazione del potere) per governare con efficacia in uno Stato contemporaneo”.
Lo "status degasperiano" di cui parla Elia è la coincidenza tra premiership e  leadership del partito vincitore delle elezioni, nell'ambito di un sistema politico fondato su due grandi partiti "a vocazione maggioritaria", ossia impegnati nella competizione per il primato elettorale e quindi per la guida del governo, e su alcune forze intermedie.
La Prima Repubblica non è più riuscita a riconquistare l'equilibrio del periodo 1948-53: un equilibrio che lo stesso De Gasperi aveva giudicato precario, come dimostra il suo sfortunato tentativo di riforma elettorale. Non c'è quindi alcuna "età dell'oro" da rimpiangere o da restaurare.

Ma è ugualmente vero che la Seconda Repubblica non è riuscita là dove la Prima aveva fallito. C'è stata, è vero, la coincidenza di leadership e premiership, nella persona di Silvio Berlusconi, e per un periodo doppio rispetto all'età degasperiana. E c'è stata la riforma elettorale, che ha modificato in senso maggioritario il sistema politico italiano.
Ma non solo non si è riusciti a completare la transizione sul terreno istituzionale, con le necessarie modifiche alla seconda parte della Costituzione: rafforzamento dell'esecutivo, statuto dell'opposizione, superamento del bicameralismo perfetto. Anche sul terreno politico, il "presidenzialismo di fatto" imposto da Berlusconi, in carenza di una equilibrata riorganizzazione del circuito governo-parlamento, e in presenza di una frammentazione esasperata del sistema dei partiti, organizzato in coalizioni eterogenee e disordinate, ha prodotto una torsione plebiscitaria e populista del rapporto governo-paese, che ha finito per allontanare, anziché avvicinare, l'approdo del sistema politico italiano ad una compiuta democrazia dell'alternanza.

Non esiste dunque altra strada che quella di andare avanti, di cercare ancora, nell'innovazione istituzionale e politica, quel sistema di incentivi ai pur presenti e diffusi comportamenti virtuosi, attenti all'interesse generale, che oggi se non manca del tutto, è certamente del tutto inadeguato.
Dell'innovazione istituzionale si è detto e scritto tante volte e si è già tornati qui sopra sui punti essenziali di una circoscritta e incisiva revisione costituzionale, sia sul versante del rapporto governo-parlamento che su quello del superamento del bicameralismo perfetto.

Un cenno è d'obbligo sulla legge elettorale, solo per dire che il ritorno al collegio uninominale maggioritario resta l'unica possibile quadratura del cerchio che consente, da un lato, di mantenere lo scettro della decisione sul governo in mano al cittadino-elettore, evitando la rozzezza del premio di maggioranza nazionale; dall'altro di ripristinare, attraverso la mediazione della rappresentanza territoriale, la relazione oggi spezzata tra elettori ed eletti, senza riproporre i guasti legati al voto di preferenza.
Resta aperto il nodo di come evitare che il soggetto prevalente, nel collegio uninominale, sia la coalizione (modello Unione, per intenderci), con ciò che essa si porta dietro, in termini di indeterminatezza politico-programmatica e di degenerazione oligarchica nella selezione del ceto parlamentare, anziché il partito "a vocazione maggioritaria", o per dirla con Claudio Petruccioli, il "partito alfa", il partito dominante, per quantità di consensi e qualità di leadership, nella sua eventuale, compatta coalizione con una o al massimo due forze intermedie.

Una spinta in questa direzione può venire dal doppio turno alla francese, o da un sistema di collegi uninominali alla tedesca, ma in piccole circoscrizioni alla spagnola, secondo il suggestivo e, dal mio punto di vista, persuasivo modello elaborato alla fine della scorsa legislatura da Salvatore Vassallo. Al di là dei tecnicismi, ciò che conta è affiancare alla costruzione di un sistema istituzionale coerente, la messa in campo di un grande partito, per ognuno dei campi del bipolarismo, che si pensi e si viva come un soggetto fondamentale della democrazia maggioritaria.

Quel che ci ha insegnato il travaglio della Seconda Repubblica è infatti che non può darsi vera democrazia maggioritaria senza partiti a vocazione maggioritaria. Neppure l'uninominale all'inglese è in grado di produrre una vera democrazia maggioritaria, "modello Westminster", senza partiti coerenti con questo obiettivo: partiti pochi e grandi, mai più di quelli che si possono contare con le dita di una sola mano; due e solo due tra questi che svolgano la funzione di "partiti alfa", anche perché, per dirla con Elia, godono entrambi dello "status degasperiano", ovvero della regola, scritta o non scritta, ma comunque ferrea, della coincidenza tra leadership e (candidatura alla) premiership, con tutto ciò che questo comporta; contendibilità della leadership, sia nazionale che regionale e locale,  come causa e conseguenza insieme dell'apertura dei partiti alla partecipazione attiva dei militanti e dei cittadini-elettori, nella selezione della classe dirigente.
Il Partito democratico è nato sulla base di questa intuizione, riflessione, convinzione: solo un partito "nuovo", per identità culturale, certo, "ulteriore" rispetto alle culture politiche del Novecento, ma anche per forma organizzativa, compiutamente democratica, maggioritaria, competitiva, che non si riduca ad essere, banalmente, l'ennesimo nuovo partito, può rappresentare la via d'uscita dal labirinto nel quale si è smarrita la Seconda Repubblica.

Un partito nuovo è comunque un partito. E un partito è un'organizzazione, non un'improvvisazione. Il PD è ancora un prototipo, una concept car, in attesa di ingegnerizzazione. La traduzione organizzativa del modello innovativo rappresentato dal PD deve essere per l'appunto una traduzione e non un tradimento. Ma la traduzione organizzativa ci deve essere. E deve essere innovativa e coraggiosa.

In coerenza con la forte spinta che viene dal paese, il PD deve contribuire al ridimensionamento del nucleo, oggi troppo esteso, del ceto politico permanente: una quota di professionismo politico è una risorsa insostituibile in un sistema democratico, ma arriva il momento nel quale la crescita quantitativa diventa mutamento qualitativo e una democrazia rischia di diventare il suo opposto, un regime oligarchico, castale, fondato su una rendita troppo estesa del potere di nomina, che finisce per inibire lo stesso potere di indirizzo e di decisione, da parte della politica stessa.
All'opposto, va invece rimotivato e rilanciato, e coltivato e formato, il volontariato politico: la più ampia cerchia dei militanti politici, che oggi si va restringendo, secondo una dinamica inversa rispetto a quella del professionismo politico. Questa intermedia rappresenta la fascia cruciale per il successo della scommessa del PD: dalla sua ripresa quantitativa e dal suo rilancio qualitativo dipendono le sorti del partito nuovo, il suo radicamento nella società italiana e la sua capacità di pensare e di produrre cambiamento, sostenendo le necessarie e spesso difficili riforme di cui il paese ha bisogno.
Ma anche il volontariato politico ha bisogno, per non ridursi ad una minoranza separata dalla società, tendenzialmente settaria, di misurarsi con una cerchia più ampia, quella degli elettori attivi, che non hanno intenzione, interesse, possibilità di impegno nel volontariato attivo stabile, ma che non per questo rinunciano a chiedere di poter partecipare alle decisioni importanti: quelle che riguardano la scelta delle persone (primarie per le cariche istituzionali monocratiche, per i candidati nei collegi uninominali, per le stesse principali cariche di partito), ma anche la determinazione di orientamenti programmatici, mediante referendum interni, o anche la sperimentazione, ancora troppo poco diffusa tra i democratici italiani, di pratiche e tecniche innovative di democrazia deliberativa.

Si tratta di tre direzioni di impegno (il ridimensionamento e la riqualificazione del ceto politico professionale, il rilancio e il potenziamento del volontariato politico e la costruzione di canali innovativi di partecipazione  dell'elettorato attivo), che devono articolarsi secondo modalità diverse nei differenti contesti territoriali (fare il PD in Calabria non è la stessa cosa che farlo in Lombardia o in Toscana) o sociali: una cosa è mantenere il primato tra i ceti medi intellettuali impiegatizi, altra cosa è porsi l'obiettivo ineludibile di riconquistare il primato tra i ceti produttivi, dagli operai, ai contadini, agli artigiani, agli imprenditori. Senza considerare la necessità di fare i conti con l'evoluzione dei mass-media, dai giornali alla televisione alla rete, e il condizionamento esterno che essi determinano sulle menti e i cuori di elettori, militanti e perfino dirigenti di partito.

Si tratta, come è evidente, di una sfida grande. Una sfida decisiva per la funzione storico-politica del PD e dunque per gli stessi destini del Paese.