E’ difficile prevedere se il cordone sanitario che le istituzioni finanziarie europee e internazionali hanno cominciato a stendere intorno all’Italia sarà efficace. L’attacco all’euro e ai due paesi oggi più fragili, Italia e Spagna, si respinge in modo permanente solo se si realizzano tre condizioni di contesto da cui ancora sembriamo ben lontani.On. Marco Causi, 6 agosto 2011
(a) una regolazione più stringente dei mercati finanziari; (b) una definitiva costruzione dei meccanismi europei di stabilizzazione finanziaria, a partire dal Fondo su cui l’Unione ha deciso il 21 luglio rimandando però a settembre ulteriori non banali aspetti operativi; (c) un vero coordinamento delle politiche fiscali dell’Unione, che dovrebbe fra l’altro superare l’idea di aggiustamento asimmetrico oggi prevalente, e cioè l’idea che l’aggiustamento è tutto sul versante del rigore fiscale, introducendo invece qualche elemento di simmetria (i paesi in avanzo di bilancia corrente dovrebbero, infatti, contribuire all’aggiustamento con l’aumento della loro domanda interna, attraverso politiche fiscali espansive oppure attraverso dinamiche più accentuate dei redditi interni, a partire dai salari).
Le conseguenze del cordone sanitario internazionale sono più facili da valutare sul fronte interno. Il governo è stato costretto, sembra in cambio del via libera tedesco alle operazioni di mercato aperto della Banca centrale europea sui titoli italiani, a rimangiarsi tutto quello che (non) aveva detto in parlamento mercoledì scorso. E ad annunciare quattro misure di cui solo una (o forse due) hanno qualche valore effettivo: l’anticipazione al 2013 dell’obiettivo di pareggio di bilancio.
Il governo non ha detto, però, la cosa più importante: e cioè la sua disponibilità a rivedere, insieme al profilo temporale della manovra di risanamento, la sua architettura qualitativa e la distribuzione sociale dei sacrifici richiesti. Nel testo del decreto 98, approvato in fretta e furia dal parlamento in uno sforzo di coesione nazionale nei giorni iniziali degli attacchi speculativi, c’è una grande area grigia di incertezza (che i mercati ci hanno fatto pagare) relativa ai 20 miliardi che dovranno derivare dalla riforma fiscale e della spesa assistenziale. E’ lì che il governo ha dimostrato e continua a dimostrare tutta la sua ipocrisia e l’incapacità di gestire la fase di crisi.
Nell’elenco delle agevolazioni fiscali da ridurre sono comprese poste intoccabili (come le detrazioni per carichi familiari, quelle per lavoro e per malattia, ecc.). Con un grandissimo sforzo di coesione nazionale (ma potrà questo governo discreditato farlo esercitare al paese, alle categorie, al popolo?) si può pensare di ridurre benefici oggi goduti dalle imprese per importi non superiori a tre-quattro miliardi, e altrettanto chiedere alle famiglie. Sul fronte della spesa assistenziale si agisce su un perimetro compreso fra 45 e 50 miliardi, già ridotto nei quadri finanziari futuri dai tagli apportati a regioni ed enti locali (14,9 miliardi in meno a regime) e già in corso di risanamento in alcune sue componenti, grazie a operazioni di razionalizzazione cominciate nella precedente legislatura, ad esempio nel campo della più attenta valutazione dell’invalidità civile e dell’accompagnamento. In ogni caso, un taglio (dolorosissimo, probabilmente non sostenibile) alle prestazioni assistenziali del cinque per cento non porta in cascina più di altri due miliardi.
La manovra quindi è ben lontana dal raggiungere credibilmente l’obiettivo teorico di 20 miliardi. Ed in più è odiosa socialmente, attribuisce tutto il carico del risanamento a lavoro, impresa, redditi bassi e medi e famiglie beneficiarie di prestazioni assistenziali. Per valutare l’impatto sociale, e la stessa possibilità di avere consenso e coesione, il governo deve essere disponibile ad ammettere che non è la stessa cosa, ad esempio, ridurre le detrazioni sull’imposta progressiva sui redditi (godute dalle famiglie a reddito basso e medio basso che hanno in chiaro i loro redditi) ovvero ripensare, anche parzialmente, all’esenzione delle imposte sulla prima casa, dove il solo ripristino della normativa varata dal precedente governo Prodi farebbe rientrare in circolo altri tre miliardi. Per non parlare della totale assenza, nella manovra che adesso dovremmo anticipare, di misure vere nei confronti della rendita, dei grandi patrimoni, dell’evasione fiscale.
Il problema, insomma, non sono i tempi: si lavori pure tutto agosto, ma con la disponibilità da parte del governo a trattare con l’opposizione e le parti sociali sulla distribuzione sociale dei sacrifici. Ed è proprio questa che è – sciaguratamente – mancata durante l’accelerazione impressa alla crisi italiana dopo il “giovedì nero” delle borse mondiali del 4 agosto. Una disponibilità, in prima istanza, a farsi da parte per dare spazio ad un governo istituzionale di unità nazionale, o almeno ad accettare un confronto per riportare un segnale di equità dentro il risanamento del bilancio. Dietro questa indisponibilità riaffiora con protervia la pervicace volontà di Berlusconi di non toccare nessuno degli interessi costituiti che cementano il blocco sociale di riferimento della sua coalizione: è questo dato politico che fa “chiudere” il parlamento ad agosto, al di là di futili colpi di teatro come la sessione di giovedì 11 agosto sulla riforma dell’articolo 81 della Costituzione.
Anche l’anticipazione al 2013 del pareggio di bilancio è una scelta discutibile (sembra, imposta dalle istituzioni finanziarie sovraordinate). Sommando le due manovre triennali in corso, quella 2009-2011 varata nell’estate del 2008 e quella 2012-2014 varata tre settimane fa, la correzione del saldo di bilancio è prevista nella misura di 45,8 miliardi nel 2011, 31 miliardi nel 2012, 49,3 nel 2013, 47,9 nel 2014 (vedi Daveri e Pisauro su lavoce.info). La somma delle manovre nel triennio 2012-2014 dà quindi un lordo di 128,2 miliardi. La correzione sul 2012 è più bassa, per effetto delle difficoltà politiche nella decisione di risparmi immediati da parte di un esecutivo molto fragile, con una base parlamentare risicatissima, e anche per il tentativo di facilitare la ripresa economica in corso. Un’opzione alternativa sarebbe di omogeneizzare gli obiettivi di ciascun anno, il che significherebbe portare l’obiettivo del 2012 da 31 a 43 miliardi, e ridurre a questa stessa cifra gli obiettivi più lontani.
Per dare credibilità nel tempo agli impegni assunti dal paese nei confronti delle istituzioni europee e internazionali la strada maestra sarebbe quella del consenso e della coesione nazionale, da costruire attraverso un nuovo quadro politico. In questa direzione, può anche essere spesa la misura volta a introdurre in Costituzione regole più stringenti in materia di bilancio pubblico: con un impegno bipartisan di questo tipo emergerebbe la volontà di tutto il paese a restare dentro regole di rigore, senza però legare le mani ai diversi schieramenti politici in merito alla qualità degli interventi e ai loro effetti distributivi. Senza costringere l’Italia ad una cura di politica fiscale che è clamorosamente superiore a quanto richiesto dal patto europeo di stabilità e crescita. E senza sospendere la democrazia, e quindi rendendo non necessariamente impossibili scadenze elettorali che intervengano durante il periodo di applicazione della manovra pluriennale. Anche qui, naturalmente, la nuova norma costituzionale va scritta col cesello e non con la sciabola, soprattutto per: (a) evitare che minoranze parlamentari di blocco possano in futuro impedire quei margini di flessibilità comunque necessari ai governi per le decisioni di bilancio; (b) definire con ragionevolezza le potenziali destinazioni degli eventuali surplus di entrate, in particolare di quelle aventi natura permanente.
L’anticipazione di un obiettivo triennale lordo di 128 miliardi al 2013 rischia invece di uccidere la fragile ripresa italiana. Se è vero che è questa la volontà dell’Europa e dei suoi banchieri centrali, si tratta di una volontà miope e distorta, colpevolmente indifferente alla crescita e all’occupazione. E se questo è lo scotto che l’Italia dovrebbe pagare per la caduta di credibilità internazionale dell’attuale governo e del suo presidente del consiglio, non solo si tratta di insistere con ogni possibile sforzo per fargli fare un passo indietro, ma si tratta anche di ricordare all’Europa e alle istituzioni finanziarie internazionali che non è senza costi a lungo termine che si può procedere al commissariamento di un paese come l’Italia, 60 milioni di abitanti, paese fondatore dell’Europa, sua porta verso il Mediterraneo, seconda potenza industriale del continente. L’indifferenza, si sa, può uccidere, ma qui si rischia di uccidere l’Europa. In questo momento drammatico c’è una sola opposizione, ed è quella che fa sua la difesa dell’interesse e della dignità nazionale, oltre che dell’equità sociale.
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