L’arrivo degli ispettori ministeriali per verificare quanto accade realmente dentro le (nuove e belle) mura del carcere di Trento non sorprende del tutto: molte e da più parti sono state negli ultimi mesi le voci critiche rispetto alla gestione, alla impostazione del rapporto di lavoro con le guardie, al non riconoscimento di alcuni diritti fondamentali, come per esempio quello alla salute.
Mattia Civico, "Trentino", 7 luglio 2011
Spetta agli ispettori il compito di verificare puntualmente quanto sta avvenendo, ma è del tutto evidente che la cosa non riguarda solo l’amministrazione penitenziaria, ma chiama in causa anche la nostra responsabilità di amministratori e il nostro essere cittadini di questa comunità. Quello che ora accade fra quelle mura ci riguarda molto da vicino, perché il carcere non può essere considerato un luogo a noi estraneo e chi ci vive, per lavoro o per scontare una pena, è pienamente membro della nostra comunità.
Mi associo dunque alle richieste di chiarezza che ufficialmente hanno avanzato alcuni parlamentari (sono due negli ultimi tre mesi le interrogazioni alla Camera inerenti la gestione del nostro carcere) i sindacati di categoria, i sanitari dell’istituto.
La Provincia ha investito importanti risorse nella costruzione del nuovo carcere di Trento. Abbiamo realizzato un istituto certamente all’avanguardia dal punto di vista strutturale e tecnologico. Abbiamo così garantito alla popolazione carceraria e a chi ci lavora, luoghi e spazi dignitosi. Non era così in via Pilati ove sovraffollamento e fatiscenza dell’immobile imponevano a tutti condizioni umanamente inaccettabili. Abbiamo dunque salutato l’apertura della nuova struttura come un evento importante per l’intera comunità e come espressione di una responsabilità concretamente agita.
Penso sia comprensibile e legittima pertanto l’aspettativa, severa ed esigente, che il nuovo carcere di Trento possa esprimere pienamente le potenzialità che sono state messe a disposizione e che possa dunque essere un luogo in cui ai detenuti è riconosciuta piena dignità e concreta opportunità di cambiamento.
Vorremmo davvero che il nuovo carcere di Trento rappresentasse un modello non solo per la bellezza della sua struttura ma soprattutto per l’approccio trattamentale che viene proposto.
Credo che un buon carcere si caratterizza non solo per elementi di sicurezza e rigore nella applicazione delle regole interne, ma anche per la qualità delle relazioni che dentro quelle mura si sviluppano, per la consistenza e quantità delle occasioni formative, lavorative, occupazionali che vengono messe in campo.
Il detenuto che deve scontare la pena è giusto che abbia il tempo per riflettere anche sugli errori commessi, ma deve vedere riconosciuto un tempo in cui poter ”riparare” e quindi acquisire competenze culturali, relazionali e lavorative che lo definisco in maniera nuova. Le istituzioni devono credere fermamente alla possibilità di cambiamento delle persone, altrimenti a nulla serve lo sforzo messo in campo da tutto il sistema, educatori, insegnanti, guardie e detenuti.
Su questo fronte credo sia necessario rinnovare un impegno comune, Provincia e Amministrazione penitenziaria, per aprire prospettive ulteriori a quelle fino ad ora esplorate e che sono a mio avviso ancora insufficienti: sono ancora troppe le ore che i detenuti passano in cella a “guardare il soffitto”, poche le esperienze di formazione e lavoro anche in esterno.
Alla base del rinnovato impegno non può che esserci il rispetto delle intesa siglata nell’aprile del 2008 da Governo e Provincia e che, all’articolo 9, fissa in 240 il limite massimo di detenuti accoglibili. Trasferire a Trento detenuti dal resto d’Italia fino a raddoppiare la capienza significherebbe rendere impossibile l’ampliamento delle attività formative e lavorative e quindi soffocare nel sovraffollamento le potenzialità della struttura.
Inoltre credo doveroso garantire gli organici previsti per quanto riguarda il personale di polizia penitenziaria: è evidente che la attuale carenza di guardie sovraccarica di lavoro e tensione quelle che ci sono e limita al minimo le possibilità di movimento interno.
Infine, ma su questo l’ultima parola spetta alla direzione, credo che vada incentivato il rapporto tra il carcere e il territorio, promuovendo con convinzione la presenza di volontari, di operatori, di realtà associative. Vanno create le condizioni e gli spazi per far sentire il carcere di Trento una parte viva ed importante della nostra comunità. Ora che la sua nuova collocazione lo sottrae alla vista dei più, è più alto il rischio che ci si possa dimenticare di questo luogo, contenitore di fragile umanità, che ha diritto ad essere pensata e considerata pienamente parte.