Democrazia economica è partecipazione

In questa fase delicata per il nostro sistema economico, sono in molti a guardare stupiti e ammirati il modello tedesco.
Bruno Dorigatti, "Corriere del Trentino", 1 giugno 2011

In Germania, nazione colpita dalla crisi come tutte le economie avanzate, il sistema produttivo ha retto il colpo e sta progressivamente trainando il Paese fuori dalle secche della recessione: la ricchezza cresce- dopo un drammatico 2009- e la disoccupazione è ai minimi dal 1990. Siamo lontani anni luce dall'Italia descritta dall'ultimo rapporto Istat: economia ferma, disoccupazione in aumento, precarietà.

 Un Paese bloccato, immobile, incapace di progettare una strategia di sviluppo. Il nostro Trentino è territorio di frontiera anche da un punto di vista economico, se mi è permessa questa semplificazione: non sprofonda con le altre regioni italiane nel baratro della recessione, ma non riesce nemmeno ad avvicinare i ritmi di crescita dell'economia tedesca. Con le esperienze nordeuropee condividiamo la centralità degli interventi di politica economica: non parlo solo degli interventi anticrisi, di natura "emergenziale", che anche nella nostra Provincia hanno fatto in modo che la crisi non colpisse in modo drammatico le fasce più deboli della popolazione, ma penso soprattutto alla consapevolezza che le redini dell'economia non possono essere lasciate in mano solo al mercato. La Germania ha superato la crisi e può guardare al futuro con ottimismo proprio perché, mentre nella maggior parte degli stati europei si è applicato un liberismo sfrenato, ha portato avanti una politica economica di lungo respiro che, pur non interferendo col mercato, ha garantito e garantisce linee e orientamenti chiari e stabili. Su questo aspetto il Trentino dovrebbe caratterizzarsi positivamente: il bagaglio di conoscenze, saperi, culture che produrrà anche quest'anno il Festival dell'Economia (il cui titolo, puntualissimo, è "I confini della libertà economica") potrà esserci di grande aiuto nella costruzione di un modello originale, forte della propria autonomia ma capace di apprendere il meglio dalle esperienze europee più avanzate.

Ma, guardando a nord, possiamo imparare ancora qualcosa. Alla base del modello tedesco c'è il ruolo determinante delle parti sociali: se vogliamo capire fino in fondo le ragioni della sua forza, non possiamo prescindere dall'analizzare il sistema di relazioni industriali che caratterizza la Germania da più di mezzo secolo. "Codecisione" (Mitbestimmung) significa sostanzialmente che i lavoratori partecipano alla formazione delle scelte strategiche delle imprese: essi, informati per tempo sull'andamento della società, attraverso le loro rappresentanze nei Consigli di Sorveglianza hanno la possibilità di partecipare alla discussione che riguarda indirizzi e linee guida. Una forma di corresponsabilizzazione che, ben lontana dall'essere motivo di tensioni nella vita aziendale, garantisce alla società solidità e- di conseguenza- produttività e possibilità di crescita. Quella "governabilità" che in Italia qualcuno pensa di imporre nelle aziende con decisioni unilaterali e ricatti, in Germania viene garantita da processi democratici di coinvolgimento di tutti i protagonisti della produzione. Trasparenza e corresponsabilità nella vita d'impresa, investimenti di prodotto e centralità della formazione, un sistema di diritti nazionale e una forte azione rivendicativa del sindacato nella contrattazione decentrata: sono questi- pur consapevole di non essere esaustivo- gli ingredienti della "ricetta tedesca" per uscire dalla crisi e rilanciare l'economia.

Questo modello è importabile nella nostra realtà? Se ne discute da tempo, spesso anche a sproposito, confondendo la "cogestione" con la partecipazione dei lavoratori agli utili d'impresa. Io ho provato a dare il mio contributo, proponendo un disegno di legge che prendeva le mosse dalle esperienze nordeuropee. Il senso di questa proposta è stato integrato nella riforma della legge sugli incentivi alle imprese: un piccolo passo avanti che quantomeno mette nero su bianco un impegno, pur generico e ancora vago, nella promozione della partecipazione dei lavoratori alla vita d'impresa. La palla ora passa alle parti sociali: la legge non può garantire un modello standardizzato, uguale per tutti, a fronte di una pluralità di situazioni e di contesti estremamente diversificati. E' dal basso dell'esperienza aziendale che deve nascere la spinta alla diffusione di forme di democrazia economica: nel vivo dei luoghi di lavoro si possono infatti riconoscere e affrontare i problemi legati all'organizzazione del lavoro, all'impiego delle risorse, alla valorizzazione del capitale umano.

Quella che bisogna fare è una scelta, non ideologica e partigiana, ma politica nel senso più alto del termine: una scelta che si pone l'obiettivo di affermare un principio di collaborazione attraverso l'unico, vero sale della democrazia, ovvero la partecipazione. Non è solo una questione di etica: sono le necessità della produzione, l'instabilità dei mercati, il peso della concorrenza ad imporre nuovi sistemi di organizzazione del lavoro e di gestione della vita d'impresa. Le strade sono due: una, superata e inefficace, procede sulla via dell'unilateralità; l'altra, adeguata alle pressioni del presente, va alla ricerca di forme partecipative di relazioni tra le parti. Questa è la strada da percorrere, e non è il caso di averne paura.