La logica dei referendum

Il voto che gli Italiani sono chiamati ad esprimere il 12 e 13 giugno in occasione dei Referendum ha un’importanza politica fondamentale per il futuro del nostro Paese.
Andrea Pradi, 31 maggio 2011

Questa va ben oltre la mera abrogazione di leggi che prevedono il ritorno del nucleare sul suolo nostrano, che obbligano alla mercificazione di un bene che deve essere accessibile a tutti come l’acqua o che permettano ad una sola persona di non presentarsi ai processi in cui è imputato perché impedito dagli impegni relativi alla sua carica.
In un momento in cui la politica istituzionale è affastellata sui problemi del solito noto è la società civile a riappropriarsi con forza dei temi della politica vera, quelli della (ri)affermazione dei diritti di tutti contro gli interessi dei pochi, diritti obnubilati da anni di politiche liberiste.

La grande crisi dell’autunno 2008 ci aveva ammonito rispetto alla necessità di un cambiamento delle politiche economiche in cui si muoveva il mondo globale. Un nuovo modello di sviluppo che tenesse conto delle esigenze di conservazione dell’enorme patrimonio naturale (e sociale) che ci è stato consegnato, da porre al riparo dalle logiche di sfruttamento scellerato anche a favore delle generazioni future. Così non è stato. L’impressionante opera ideologica di esaltazione delle virtù del mercato ha portato la politica istituzionale a proseguire nell’idea del rilancio dei consumi, dove concorrenza e competizione costituiscono i binari su cui far correre il treno della ripresa.
Sul dogma dell’efficienza e delle virtù salvifiche del mercato, la distinzione pubblico privato si riassesta su di un rapporto di sussidiarietà. L’intervento pubblico non è più pensato per la soddisfazione di interessi dell’intera collettività, o per rimuovere quegli ostacoli di natura economica e sociale che impediscono la partecipazione alla vita democratica del paese, ma viene confinato e giustificato dalla correzione dei fallimenti di mercato, i suoi confini sono disegnati da ciò che il privato non è in gado di fare. È per questa logica che ad oggi si può affermare che non vi sia area del pubblico che non sia stata toccata da una privatizzazione realizzata o minacciata: energia, banche, crediti, trasporti aerei, ferroviari e navali, università, beni culturali, sanità, demanio immobiliare, televisione, protezione civile, …per finire con l’acqua.

Il cd decreto Ronchi è solo l’ultimo atto di un percorso di dismissione del patrimonio pubblico giustificato dalle virtù del mercato, ma che trova le sue ragioni più vere nel tentativo di governare contingenze economiche e finanziarie sfavorevoli, che da sempre accompagnano la politica di bilancio del nostro paese, più che nella necessità di un reale ripensamento critico dello scopo e della funzione della proprietà pubblica e quindi degli ambiti e degli spazi che si vogliono riservare allo Stato e al libero mercato quali istituzioni fondamentali di organizzazione sociale.

La crisi economica richiede un’inversione di rotta rispetto alla false certezze del pensiero unico. Tale richiesta è stata colta dal movimento referendario che esprime un percorso di riappropriazione sociale di temi cruciali per la democrazia, quali sono certamente la difesa dei beni comuni che sono funzionali all’esercizio di diritti fondamentali (dalla vita, all’ambiente salubre, all’uguaglianza) e al libero sviluppo della persona e che per questo vanno garantiti e tutelati nell’interesse di tutti.
La richiesta di bloccare il programma nucleare italiano voluto dal Governo Berlusconi è volta ad evidenziare i problemi sicurezza per la cittadinanza e di impatto ambientale che questa tecnologia comporta. Il nucleare è pericoloso e ad oggi non ha risposto a nessuno dei rischi che lo accompagnano. L'accettabilità del rischio del nucleare non può dipendere né dai governi, né dagli esperti ed ancora meno dai promotori del nucleare. È una questione la cui risposta spetta a tutti i cittadini attraverso un vero processo democratico partecipato, che già più di vent’anni fa aveva espresso parere negativo sul medesimo tema.

Così anche l’acqua dovrebbe essere consegnata ad una gestione partecipata da parte di tutta la comunità che la utilizza per essere resa accessibile a tutti e salvaguardata per le generazioni future. Esattamente la direzione opposta imboccata dal c.d. decreto Ronchi che attraverso l’obbligo di procedere alla privatizzazione del servizio idrico a fini di profitto condizionerà inevitabilmente la selezione per il suo accesso in base alla abilità di pagare di ognuno di noi(quesito 1). Profitto che inoltre è al privato garantito per legge visto che è normativamente prevista la remunerazione (7%) del solo capitale privato investito (quesito 2). La obbligata sottoposizione del servizio idrico alle regole della concorrenza e del mercato produrrà, come ha già fatto in molti casi, un sicuro aumento delle tariffe, senza garanzie per un miglioramento del servizio, ma soprattutto creando diseguaglianze.

Proprio quelle diseguaglianze che produce una legge che prevede per il solo Presidente del Consiglio (e per i suoi ministri) l’invocazione del legittimo impedimento a comparire ad un processo in cui è imputato, in caso di concomitante esercizio di attribuzioni legate alla sua funzione. Tale previsione non trova giustificazione in nessuna esigenza di tutela della collettività, ma costituisce un odioso privilegio di una sola persona per sottrarsi ai procedimenti giudiziari in corso. L’uguaglianza di tutti di fronte alla legge non è un vezzo privo di senso ma un pilastro fondamentale di uno Stato che vuole dirsi democratico.

Nonostante il governo abbia indetto le votazioni nell'ultima data utile per legge, sperando nell'astensione (oltre che sprecare circa 400 milioni di euro per non aver proceduto all'accorpamento con le amministrative) è necessario un ulteriore grande sforzo partecipativo affinché la risposta delle urne possa far prevalere la partecipazione e gli interessi della collettività contro i profitti dei pochi. È quindi quasi un dovere portare alle urne almeno 25 milioni di persone, il 50% degli aventi diritto. Perché si scrive referendum ma si legge Democrazia!