Come è possibile che oggi l'Europa sia unita solo su temi distanti dall'interesse dei cittadini degli Stati membri e non sia vicina a quegli stessi cittadini quando è il momento di risolvere problemi gravi quali l’accoglienza di profughi, la sicurezza, l’economia? Luca Zeni, "L'Adige", 21 aprile 2011
Come può oggi l'Italia, al di là delle divisioni politiche, recuperare un'unitarietà di visione e prospettiva che le restituisca significatività sullo scenario internazionale?
Mentre in Trentino si discute su come ricordare il settantesimo anniversario del Manifesto di Ventotene, con il sogno di un’Europa federale unita e forte, viviamo infatti un periodo di grandi tensioni, con uno scenario in cui si intrecciano la guerra in Libia, l’arrivo di migliaia di immigrati dal nord Africa, le difficoltà economiche degli Stati con il rischio di default crescente, la perdita di credibilità delle istituzioni comunitarie, il sopravanzare dei partiti nazionalisti in molti Paesi europei. Un groviglio confuso, che alcune chiavi di lettura contribuiscono tuttavia a chiarire.
Partiamo dalla guerra in Libia.
Esistono guerre che devono essere combattute. Certo, una guerra non può essere “giusta”, perché “a morire e poi a fare la fame è la povera gente”, per dirla alla Brecht. Ma una guerra può essere necessaria, doverosa. Negli ultimi anni sono innumerevoli gli esempi di veri e propri genocidi: Iraq, Ruanda, Balcani, Darfur, Sierra Leone, Congo, Corea del nord, Libano, Haiti, Tibet..
In questi casi la comunità internazionale è chiamata ad intervenire, soprattutto attraverso le Nazioni Unite, pur nella fatica di una struttura che andrebbe radicalmente riformata.
Ma sappiamo che la maggior parte delle guerre – al di là delle motivazioni ufficiali che servono per rendere accettabile l’intervento all’opinione pubblica – si basa sul perseguimento di interessi che dipendono dal quadro geopolitico: si possono cercare spazi fisici, mercati, bacini di espansione per il reperimento delle materie prime, aree di influenza, o magari si vuole impedire che altri accrescano troppo la loro forza economica o militare.
Ma la guerra in Libia rientra tra gli interventi umanitari o è una guerra tradizionale?
Il giudizio finale sarà quello degli storici, ma ad un mese dall’inizio dei bombardamenti possiamo già svolgere alcune valutazioni.
La Libia ha un sistema tribale molto controllato, un reddito alto rispetto alle altre aree del nord Africa, un regime autoritario che da quarant’anni garantisce e tutela lo status quo. Oggi appare chiaro che i ribelli non rappresentano il risveglio delle coscienze e la voglia di democrazia di un popolo oppresso, bensì una parte del gruppo dirigente, formato da esponenti sino a ieri di spicco del Governo libico, che armato e sostenuto dall’esterno, in particolare da Francia ed Inghilterra, prova a rovesciare il governo ed a sostituirsi a Gheddafi.
In Libia oggi si combatte una guerra tradizionale, non si è trattato tanto di intervenire per salvare vite innocenti, ma per tutelare interessi statali diversi. Quindi quello che dobbiamo chiederci è: quale posizione doveva tenere l’Italia? In base agli interessi nazionali, come sarebbe stato meglio schierarsi?
Per la Francia e l’Inghilterra, potenze storicamente e intimamente coloniali, senza rapporti commerciali e finanziari significativi con la Libia, è stata l’occasione di riconquistare influenza in un’area strategica, garantirsi approvvigionamenti di materie prime, risvegliare l’orgoglio nazionale e crescere nei consensi interni in vista delle nuove elezioni nazionali.
Al contrario l’Italia ha messo a rischio miliardi di euro in rapporti commerciali, finanziari, forniture di petrolio; ha reso più instabile una zona da cui partono sui gommoni migliaia di persone dirette verso le coste italiane, non certo verso la lontana Francia o la remota Inghilterra (il direttore dei nostri servizi segreti parla di 15.000 persone liberate da Gheddafi dalle prigioni, proprio come ritorsione); nel caso estremo di un precipitare degli eventi, ha esposto i cittadini italiani ad attacchi missilistici.
Chi ha guadagnato dall’intervento al momento sono Francia e Inghilterra, mentre ci hanno perso l’Italia e gli Stati Uniti. Questi ultimi infatti si sono imbarcati in un’operazione che non porta benefici e che mette ancora più in difficoltà sul piano interno un Obama che vede avvicinarsi non senza preoccupazione la data delle elezioni presidenziali.
Ora, la situazione è in una fase delicata, perché prima i vertici del Pentagono ed ora quelli della NATO si sono resi conto di come i ribelli non potranno prendere il potere senza un intervento militare di terra, ma in pochi hanno la voglia e le forze per tentarlo, viste le difficoltà del terreno desertico della Libia.
Questo è reso ulteriormente complesso dalla storica divisione della Libia in tre aree - Tripolitania, Fezzan e Cirenaica - di cui solo quest’ultima sembra ad oggi aver appoggiato la causa ribelle.
Ma torniamo all’Europa. Come può oggi l'Europa cessare di essere un'unione burocratica di Stati ed iniziare ad essere un'unione solidale di cittadini capace di esprimere una posizione politica unitaria?
Mai come in questo momento l’idea stessa di Europa è messa in discussione ed è percepita lontana dai cittadini. La guerra in Libia ha mostrato la assoluta mancanza anche di un semplice raccordo in politica estera; il rifiuto dei profughi – risultato delle bombe inglesi e francesi ed accolti dall’Italia – mostra l’incapacità di sentirsi parte di un comune destino e l’assenza di regole che tutelino davvero gli Stati membri; i numerosi vincoli che l’Europa pone in tutti i settori, spesso frutto dell’attività delle grandi lobbies economiche, sono vissuti dai comuni cittadini come imposizioni di un’istituzione lontana; i costi derivanti dall’esigenza di salvataggio degli Stati che vanno in default finanziario provocano una reazione anche emotiva evidente, e in senso contrario il rispetto di vincoli rigidi che impediscono politiche monetarie ed economiche diverse viene percepito come un limite soffocante dagli Stati che vorrebbero poter stampare moneta ed alzare il debito come stanno facendo gli USA. Non senza enormi rischi, peraltro.
Tra tutti, quella che rischia di pagare il prezzo più alto per la debolezza dell’Europa, è l’Italia.
Dobbiamo infatti essere consapevoli che per un Paese come l’Italia, con una dimensione insufficiente ad influenzare la complessità del sistema globale, l’Europa è stata ed è essenziale per tenere dritta la rotta. Sarebbe perciò doveroso oggi ritrovare quella visione comune che per decenni ha condotto la politica estera italiana, basata su multilateralismo e rafforzamento delle istituzioni europee. Per riuscirci occorrono lo spirito, la lungimiranza e la credibilità di chi aveva indicato ed imboccato quella via, da Spinelli a Degasperi, da Nenni a Moro, per arrivare a Ciampi, per restituire dignità ad un Paese che sappia essere ponte tra Mediterraneo e continente europeo e guida per una Europa sempre più dei popoli e delle Regioni e sempre meno semplice sommatoria di singoli interessi nazionali, peraltro sempre più contrastanti.
Su questo obiettivo, occorre innestare una profonda azione culturale e politica presso l’opinione pubblica, raccogliendo le legittime rimostranze anti-europeiste emergenti nel tessuto economico e sociale del nord del Paese per rilanciare una fortissima azione di politica estera nella direzione di un recupero di ruolo per l’Europa sul fronte delle politiche di difesa, di politica estera e di politica dei flussi immigratori. Su questo ci giochiamo una partita fondamentale per ritrovare il ruolo che compete all’Italia sullo scenario internazionale.
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