Non è mio costume commentare le sentenze dei Tribunali, ma il verdetto emesso dalla seconda Corte d'Assise di Torino nei confronti dei dirigenti della ThyssenKrupp, ritenuti colpevoli di omicidio volontario per il rogo che nel dicembre del 2007 uccise sette operai, merita alcune riflessioni.
Bruno Dorigatti, "Corriere del Trentino", 20 aprile 2011
Come ha affermato Tiziano Treu, eviterei di parlare di "sentenza storica", perché la storia non si fa con le sentenze. Per quanto importanti, per quanto radicalmente innovative, le decisioni dei tribunali hanno un'eco limitata se la coscienza dei fatti non si riverbera nella società, condizionando le scelte individuali e collettive.
La tragedia della Thyssen ha avuto un'importanza eccezionale, questa sì di portata storica, perché ha determinato davvero una presa di consapevolezza collettiva che da decenni non si avvertiva. Caso piuttosto raro in politica, nei primi mesi del 2008 l'iter di approvazione del testo unico sulla sicurezza subì una rapida accelerazione, dopo la visita di una delegazione parlamentare presso l'azienda torinese.
Tante erano le irregolarità scientemente commesse all'interno della fabbrica, e tanto evidente era la totale assenza di considerazione per l'incolumità e la salute di chi vi lavorava, che lo stesso mondo politico- non sempre un esempio di sensibilità nei confronti del lavoro- si accorse che era necessario mettere mano alla normativa e dotare l'Italia di un quadro legislativo all'altezza.
Quello che alla Thyssen era stato messo in gioco era la dignità stessa della vita degli operai: non si parlava quindi solo di regole non rispettate, di imperizia, di disattenzione. Era drammaticamente evidente, fin da subito, che qualcuno aveva anteposto razionalmente la volontà di profitto alla tutela della vita di chi quel profitto avrebbe dovuto garantire. Chiarissime, nella loro durezza, le parole dei pubblici ministeri: "L'imputato ha fatto prevalere l'interesse economico sul fattore umano".
Dopo anni di assenza nel dibattito, di marginalizzazione nell'agenda politica, il lavoro tornava prepotentemente sotto i riflettori: i volti di quei ragazzi morti bruciati erano i volti dell'Italia che lavora nelle fabbriche, che fa i turni di notte, che guadagna poco più di mille euro al mese. Volti che raccontavano storie comuni, che conosciamo tutti ma che per troppi anni ci avevano descritto come residuati bellici, fossili sociali, l'eccezione in un mondo fatto di new economy, lavoro intellettuale e partite IVA.
Il fuoco della Thyssen ha bruciato questa illusione e ci ha riportato un po' tutti alla realtà: in Italia sono tantissimi i lavoratori dell'industria, dell'artigianato, delle piccole imprese, lavoratori finiti un po' fuori moda nell'ubriacatura da "fine del lavoro" da cui, lentamente, sembra che ci stiamo riprendendo. Voglio precisare una cosa: quanto sto dicendo non è affatto un inno vetero-industrialista, che mette in ombra i processi che hanno ridisegnato in modo netto la geografia del mondo del lavoro, in Italia e in tutta Europa.
E' solo un appello a non lasciarsi condizionare troppo dalle mode passeggere e ad analizzare i fenomeni in tutta la loro complessità. Il lavoro è ormai un prisma dalle mille sfaccettature, ma sbaglieremmo a pensare che gli operai siano esseri in via di estinzione, spazzati via da una nuova specie di lavoratori intellettuali: le "facce sporche di unto" ci sono ancora, e questa marginalizzazione sociale le ha solamente rese più deboli e vulnerabili. Sono talmente reali che a volte muoiono bruciate, e purtroppo solo in questi momenti conquistano le prime pagine.
Ma i processi non sono irreversibili, tantomeno quelli positivi e innovatori. Lo sforzo legislativo nato sull'onda del dramma della ThyssenKrupp rischia di essere già dimenticato. Il testo unico sulla salute e la sicurezza, approvato nel 2008, è da qualche anno oggetto di continui tentativi di revisione.
Su molti aspetti gli attacchi sono stati vani, ma altri hanno subito la volontà di deregulation che caratterizza troppe volte l'azione politica in tema di lavoro. Proprio per questo, come non basta il moto di rabbia e di indignazione di fronte alle tragedie sul lavoro, non è sufficiente nemmeno applaudire i verdetti dei giudici: dobbiamo agire quotidianamente e sorvegliare con costanza, difendendo i diritti acquisiti ed estendendo le tutele a tutte le lavoratrici e i lavoratori, nessuno escluso.