Per quante siano le occasioni di contatto diretto con il territorio, una cosa sono le percezioni che ne possono venire, altra cosa è il lavoro di analisi, ovvero di conoscenza approfondita che presuppone capacità di ascolto, studio, confronto.
Michele Nardelli, "L'Adige", 12 aprile 2011
È questo, oggi, uno dei limiti più vistosi della politica, l'incapacità di leggere il presente, di comprendere la realtà, non a spanne, ma sulla base appunto di analisi in grado di mettere in discussione, se necessario, i propri strumenti interpretativi. Per questo è importante l'«Indagine conoscitiva sulla povertà e l'esclusione sociale in Trentino» svolta dalla Quarta Commissione Legislativa Provinciale ed approdata nei giorni scorsi in Consiglio Provinciale. Qualcuno dell'opposizione ha parlato di «scoperta dell'acqua calda». Anche questo è il segno dei tempi.
Un po' perché quel lavoro era anche suo visto che ha impegnato tutta la commissione, un po' perché mette in rilievo il disprezzo verso i processi di conoscenza che cercano di andare al di là del sentire di pancia, oggi tanto in voga. Conoscere le dinamiche di impoverimento, ascoltare il racconto di chi opera ogni giorno a fianco delle persone a rischio, provare ad individuare gli strumenti per dare risposte efficaci alle nuove e vecchie povertà non è affatto «acqua calda». Che solo il furore ideologico può descrivere come ridotto alla miseria dall'Icef. Peccato. L'indagine non era affatto uno spot per il Trentino, quand'anche i dati emersi rappresentino una condizione nettamente migliore rispetto alle altre regioni italiane.
Ha messo in rilievo i chiaroscuri della nostra realtà, l'incidenza inferiore delle dinamiche d'impoverimento rispetto alle percentuali nazionali, la crescita tendenziale del reddito mediano che dal 2004 al 2009 passa da 15.149 euro a 17.646 euro, oppure il dato quasi irrilevante (1,5%) di chi è persistentemente povero. Ma anche le criticità, come la rilevanza di 43.000 persone che si sono trovate a vivere sotto il reddito mediano, in quest'ambito la vulnerabilità delle donne e dei giovani, l'incidenza dei costi abitativi o la precarietà del lavoro. Senza dimenticare che la povertà è concetto più ampio.
Nel mio intervento in aula ho infatti voluto porre l'attenzione su un tema che l'Indagine affronta solo di striscio, quand'anche a mio avviso sia di almeno pari importanza, ovvero i fattori culturali nei processi di impoverimento. Amartya Sen in «L'idea di giustizia» sostiene che la povertà non si identifica solo con un basso reddito ma varia per le circostanze in cui il reddito si traduce nei vari stili di vita. E indica alcuni dei fattori di incidenza maggiori: le differenze personali (salute, disabilità...), le differenze ambientali (clima…), il contesto sociale (servizi funzionanti, violenza diffusa…), gli ambiti relazionali (modelli consolidati di comportamento nella comunità…) ed infine la combinazione tra le diverse forme di privazione. Tutto ciò porta Amartya Sen a questa considerazione finale: «… è assai verosimile che la povertà reale (intesa come privazione di capacità) sia molto più profonda di quanto indichino i dati sul reddito».
E infatti, se andiamo a ripercorrere le quasi cinquecento pagine dell'Indagine (dimensione che ha probabilmente dissuaso una parte considerevole dei consiglieri dalla lettura), emergono elementi interessanti (ed invero preoccupanti) relativi alla «povertà relazionale», in altre parole le nuove forme di povertà che investono soggetti e gruppi sociali caratterizzati da fragilità, disagio e solitudine.
La Caritas diocesana segnala una «costante fatica di molti, singoli e famiglie, a gestire le proprie risorse economiche, con conseguenti gravi ricadute (materiali ma anche relazionali, sociali, personali)». Il Comune di Rovereto indica come «circa il 30% delle persone in carico all'area adulti presentano difficoltà nell'area dell'autonomia psicologica, intesa come percezione di poter fronteggiare in modo autonomo ed equilibrato i compiti della vita».
La Comunità Valsugana e Tesino rileva «la sempre più diffusa incapacità di gestire le spese, effettuando acquisti non ponderati… In aumento anche il fenomeno delle persone che spendono i pochi soldi a loro disposizione alle slotmachines…». L'assessore alle attività sociali della Comunità delle Giudicarie segnala «significativi casi di povertà determinati soprattutto dalla insensata politica del consumismo… economia famigliare e privata basata sul debito… le povertà emergenti vanno affrontate soprattutto sul piano educativo e culturale».
Il Servizio per le tossicodipendenze dell'Azienda provinciale per i servizi sanitari pone l'attenzione sulla crescita significativa dei «soggetti che hanno richiesto trattamento per dipendenza non da sostanze (gioco d'azzardo patologico, shopping compulsivo).
Questi utenti…nel 2009 sono stati in totale 651». Transcrime segnala tra le componenti di criticità il forte aumento del tasso dei divorziati tra il 2001 e il 2008, il 50,9% in più; il dato è significativo perché, separazioni e divorzi «sono sempre un trauma e una causa di impoverimento economico per entrambi i coniugi». Tutto questo evidenzia come il rischio di impoverimento non avvenga solo per mancanza assoluta di reddito, bensì per un insieme di fattori fra i quali appare significativa l'incapacità di gestione delle proprie risorse.
Parlo della difficoltà di resistere alle sirene del consumismo e della pubblicità, dello status e dei modelli dominanti. È esemplare, sotto questo profilo, l'acquisto a rate e le politiche che vengono realizzate da molti centri commerciali, laddove lo sconto sul prezzo di un prodotto viene praticato solo se si paga a rate anziché in contanti, rovesciando quanto avveniva in passato.
Una vera e propria tecnica per incentivare l'acquisto di chi altrimenti non si potrebbe permettere un determinato bene di consumo, una sorta di inganno che nei fatti determina conseguenze gravi sul piano non solo dell'impoverimento ma anche del favorire l'usura e l'esposizione alla criminalità.
Mi riferisco inoltre alla scarsa conoscenza dei meccanismi finanziari che hanno portato molte famiglie ad affidarsi a venditori di «prodotti bancari» che consideravano di fiducia nell'acquisto di titoli che illudevano al facile guadagno ma totalmente privi di affidabilità (oltre che di eticità).
Ecco dunque che una delle risposte alla povertà - accanto a quelle che abbiamo messe in atto in questi mesi con le ultime finanziarie, la legge sulle filiere corte o quella sulle politiche per la famiglia - è l'investimento nella conoscenza, in cultura, in capacità di comprendere l'utilità o meno delle cose, nell'autonomia di giudizio. Dalla consapevolezza, della realtà come dei propri mezzi, può venire un impulso alla sobrietà, a quel «fare meglio con meno» di cui abbiamo parlato nell'ultima finanziaria.
La sobrietà, non il rilancio dei consumi bensì la loro riqualificazione, la creatività invece che la difesa con le unghie di ciò che abbiamo, le autostrade informatiche piuttosto che le gallerie… Sono queste le risposte che dobbiamo dare in un contesto nel quale sarebbe bene imparare a misurare il benessere piuttosto che la ricchezza.