Perché il 17 marzo bisogna festeggiare

Bruno Dorigatti, "L'Adige", 25 febbraio 2011
Sono sempre di più i cittadini che, con dispiacere, constatano che anche il tema del 150° anniversario della proclamazione del Regno d'Italia è stato risucchiato nel tritacarne della politica. A poche settimane dalla data indicata come baricentro delle celebrazioni, si riesce ancora a polemizzare su ogni cosa.

Qualche sondaggio tenta di fotografare il consenso in modo lusinghiero: ma chiedere a un cittadino se è «molto, poco o per niente favorevole all'unità di Italia» non mi pare un gesto di grande acume statistico. La bagarre che si è scatenata intorno all'opportunità o meno di onorare la ricorrenza con un giorno festivo è sintomatica della scarsa lucidità che affligge chi si lascia travolgere dalle polemiche. Mi domando come mai, così come avviene in molti altri stati, non si sia deciso di pianificare il giorno di astensione dal lavoro il venerdì, in modo da garantire la possibilità dei lavoratori di godere di un vero ponte e, nello stesso tempo, di ridurre il danno economico per le aziende. Sarebbe stata una scelta di buon senso, figlia di un pragmatismo che si è perso nella sterilità delle discussioni del tutto strumentali che stanno caratterizzando questo anniversario. Strumentalizzazioni e polemiche che, val la pena ricordarlo, sono lontane anni luce dai problemi reali con cui i cittadini fanno i conti ogni giorno, in un'Italia unita drammaticamente dalle piaghe della precarietà e della disoccupazione. Ogni celebrazione corre il rischio di caricarsi di troppa enfasi. Ma riconosco le potenzialità che questi momenti possono avere in termini di riflessione collettiva e di costruzione di senso. Questo anniversario poteva essere un'occasione importante non tanto per fare l'apologia acritica dei processi risorgimentali, ma per riflettere in modo sereno e lucido sulla lunga storia dell'unità d'Italia, sulle basi fondanti della Repubblica e - più importante di ogni altra cosa- sullo stato attuale della democrazia, dei suoi organi e istituti. Lo studio della storia è un principio fondamentale per la comprensione del presente e per l'azione politica: ma non si può continuamente ruminare la storia per esigenze politiche, per giustificare la propria condotta o per attaccare quella avversaria, per fare bassa propaganda. La storia va digerita: e per farlo non serve la retorica, che sia volta ad enfatizzare l'Impero romano, Garibaldi e l'inno di Mameli o che demonizzi l'unità rispolverando Alberto da Giussano. Non è compito degli storici distribuire torti e ragioni, così come non è compito di chi svolge attività politica appiattire la storia sull'attualità, per forgiarla a piacimento: compito di tutti è riflettere su cosa significhi essere cittadini italiani oggi, nel 2011, nel pieno del nostro tempo. È curioso che questa ricorrenza incroci le proprie sorti con quelle del federalismo: i decreti attuativi sono in discussione in Parlamento, tra polemiche e forzature, garantendo anche a questo passaggio cruciale per l'assetto del Paese quel timbro di «tipicità italiana» che sembra dover caratterizzare ogni aspetto della vita pubblica. È curioso, dicevo, ma avrebbe potuto essere una sovrapposizione proficua e positiva. Si è preferito invece contrapporre polemicamente le due questioni: da un lato i difensori dell'unità e dell'integrità dell'Italia dalle Alpi alla Sicilia, dall'altra i sostenitori del federalismo, delle autonomie locali, dei poteri decentrati. Ma possiamo andare avanti riducendo tutto ad una sfida, ad una disputa, con opposte tifoserie che si limitano a prendere parte senza mai partecipare realmente? Io credo di no, ovviamente, e credo che la l'occasione di aprire un confronto concreto e privo di ambiguità sugli assetti istituzionali e sulla distribuzione dei poteri in Italia sia davvero unica e irrinunciabile. In questo senso andrebbe valutata la decisione di Luis Durnwalder di non partecipare alle cerimonie: senza accapigliarsi su concetti ambigui come il sentimento nazionale, la fedeltà alla Patria, l'orgoglio italiano, ma cercando di capire quali siano oggi i cardini della Repubblica. È fin troppo semplice affermare che non possono essere quelli del 1861. Non è altrettanto facile sostituire quei valori con altre idee che uniscano e non dividano, idee nelle quali tutti possano riconoscersi e che rappresentino i fondamenti della libera e pacifica convivenza, nel presente e nel futuro. Uno degli argomenti centrali è a parer mio proprio quello dell'assetto delle istituzioni. Non intendo ovviamente la semplice architettura istituzionale, ma il grande tema della distribuzione del potere e della sua gestione democratica. In Italia la riflessione federalistica ha avuto alterne fortune, ma affonda le sue radici lontano nel tempo: già durante il processo risorgimentale si sentivano voci importanti a favore di un ordinamento federale che valorizzasse le specificità locali, riflessioni importanti poi riprese nel corso del Novecento. È interessante notare che già all'epoca si sottolineava che federalismo non significa mero decentramento amministrativo, ma moltiplicazione delle forme di autogoverno, e che lo scopo è l'organizzazione del potere politico per garantire libertà e sviluppo, non la recinzione di ipotetiche etnie o la separazione di dubbie entità statuali. Al centro quindi c'è la gestione del potere e la libertà dei cittadini: centralismo significa allontanare il cittadino dalle istituzioni, autogoverno al contrario è vicinanza e partecipazione. Non è un ragionamento astratto e bizantino, ma il vero cuore di ogni riforma: per questo è importante che si faccia attenzione a non replicare nei nuovi assetti dell'Autonomia, a partire dalle neonate Comunità di Valle, tendenze dirigiste e centraliste che vanificherebbero ogni sforzo di garantire partecipazione e cooperazione tra tutti gli attori sociali. Purtroppo un altro elemento che risulta non pervenuto, nella discussione su questo 150° anniversario, è la questione dell'Europa. Doppiamente paradossale, se pensiamo che nel pensiero di tutti i pensatori e uomini politici del Risorgimento era forte e nettissima la proiezione delle vicende italiane in chiave europea. A loro non mancava la sensibilità di allargare lo sguardo oltre i confini, consapevoli che questi cambiano in continuazione e, in prospettiva, finiscono per diventare sempre più sottili. Questa sensibilità, questa attenzione non può venire a mancare ora, se non vogliamo far affondare il processo di unificazione europea, appesantito dai suoi attuali limiti. È sempre più necessario pensare ad una nuova, grande riforma istituzionale europea su un progetto pienamente democratico, un progetto nel quale non vi sia alcuna traccia dei principi autoritari, militaristi e centralisti che hanno caratterizzato i processi di costruzione nazionale nell'Ottocento. Ho apprezzato molto l'intervento di Francesco Terreri sull'Adige, che mette in risalto quei passaggi della nostra storia in cui, al di là dei confini e delle divisioni, si sono create convergenze di idee e d'azione sui valori universali della libertà, della pace, dell'autodeterminazione. Da questi esempi possiamo ripartire, sperando che il 17 marzo sia solo un punto di partenza e non una celebrazione fine a sé stessa.