La crisi della sinistra? Unità e agenda comune

Nel 1924, alle elezioni politiche italiane decisive per tentare di arginare Mussolini, i socialisti italiani si presentarono in tre blocchi. Il Partito Socialista Unitario (PSU) guidato da Giacomo Matteotti (di cui quest'anno ricorderemo i 100 anni dalla morte), il Partito Socialista Italiano (PSI) e il Partito Comunista d'Italia (PCD'I). I motivi delle divisioni sono noti, figli della storica scissione del 1921 tra riformisti, comunisti e massimalisti.
Alessandro Dal Ri, "Il T Quotidiano", 7 febbraio 2024

Poco importa dei risultati numerici di quel voto, poco rilevanti data la legge elettorale fascista e perché falsati da quei brogli la cui coraggiosa denuncia da parte dello stesso Matteotti costò egli la vita. Ciò che vale la pena sottolineare è che nonostante la situazione critica, la sinistra italiana non riuscì a superare il suo ostacolo principale: la maledizione eterna della divisione, titolo del libro di Ezio Mauro sul tema. La litigiosità interna e la mancanza di unità si rivelarono fatali, contribuendo alla difficoltà nel contrastare efficacemente le forze fasciste in quel periodo tumultuoso.

Un secolo dopo il mondo è completamente diverso, eppure quella congenita tendenza alla divisione sopravvive. Questo non dovrebbe in verità sorprendere, poiché la sinistra stessa è intrinsecamente associata alla volontà di cambiamento, e le interpretazioni di questo cambiamento sono potenzialmente infinite. Al contrario, le forze conservatrici sono spesso unite da una visione più omogenea, orientata verso la preservazione delle tradizioni e dei valori del passato.

Analizziamo le ultime elezioni politiche del 2022. A livello di numeri i tre schieramenti che possiamo classificare di centrosinistra, cioè Movimento 5 Stelle, Terzo Polo e Partito Democratico, insieme hanno raccolto più voti di quanto abbia fatto la destra. È chiaro, politica ed aritmetica sono due cose diverse ed è sempre sbagliato utilizzarle insieme, ma questo dato ci fa capire come il trionfo meloniano e la conseguente egemonia culturale e politica dentro cui quel risultato ci ha catapultati, siano stati frutto, una volta ancora, più della divisione del campo progressista piuttosto che di uno sfondamento del fronte conservatore. A maggior ragione visti i numeri risicati di questa maggioranza al Senato.

A differenza del 1921 però, quando le ragioni della scissione avevano a che fare con avvenimenti di enorme portata storica come la rivoluzione russa, con la straordinaria ondata emotiva e ideale che essa scatenò in tutta Europa, le motivazioni dietro al frazionamento nel 2022 sono politicamente molto difficili da spiegare. Soprattutto considerando il fatto che i partiti di quello che qualcuno vorrebbe oggi «campo largo» sono arrivati al voto dopo quasi due anni di sostegno condiviso al governo Draghi, e all'indomani di avere portato a casa lo storico e straordinario risultato dei 200 miliardi del Piano nazionale di ripresa e resilienza sui tavoli europei. Semmai la destra avrebbe dovuto trovarsi in imbarazzo, dato che Forza Italia e Lega erano al governo e la Meloni all'opposizione.

Temo che al di là di tutte le difficoltà che le sinistre occidentali stanno attraversando dall'avvento della globalizzazione in poi, molte delle quali bene analizzate dal fondo del direttore del 28 gennaio ed altrettanto bene approfondite dagli interventi successivi, e della cui letteratura si potrebbero riempire diverse biblioteche, in Italia se ne aggiunga un'altra: quello di leadership politiche apparentemente disinteressate alla «costruzione». Leadership che, anzi, spesso danno l'impressione di essere più interessate alla ricerca di facili pretesti per intavolare tutti i giorni una nuova polemica tra di loro.

Sicuramente il Partito Democratico, in verità da diversi anni, fallisce - per tanti motivi e tanti suoi ormai conclamati demeriti - nel suo intento originale di aggregare tutte le anime del centrosinistra e rimane lontano dalla sua pur sempre viva aspirazione alla vocazione maggioritaria. Ha bisogno di riconquistare credibilità e consenso per poter essere baricentro di una coalizione. Eppure le forze ad esso vicine e con cui nei prossimi tempi sarebbe possibile costruire un tentativo di maggioranza nel Paese, passano il tempo a polemizzare tra di loro nei bravi intervalli in cui non sono impegnate a criticare i democratici.

L'unica strada che vedo, da dopo le elezioni europee, è che queste forze riescano a mettere da parte le rivendicazioni forzatamente identitarie, utili probabilmente ad allargare di qualche centimetro il proprio orticello. Che si siedano ad un tavolo per costruire insieme un'agenda comune per il Paese, mettendo per un attimo da parte le cose che le dividono e concentrandosi sulle tante cose che le uniscono. Come la transizione verde, l'innovazione come via per lo sviluppo, la questione occupazionale e quella salariale. L'evoluzione di un welfare che dovrà sempre più fare i conti con l'invecchiamento della popolazione e una gestione razionale dei flussi migratori. E molto altro ancora.

In caso contrario, per quante buone idee potremo mettere sul tavolo o per quanto i propri esponenti possano tornare «popolari» (e lo devono fare!), all'orizzonte del centrosinistra italiano rimarrà poco più, almeno per qualche anno, della possibilità di interrogarsi sulle ragioni della sua crisi.