L'Italia incapace di fare le riforme

Complici le assenze in edicola del lunedì, solo "L'Adige", "La Stampa" di Torino e pochi altri quotidiani hanno dato il risalto che meritava all'intervento al Festival dell'Economia del presidente di Confindustria, Carlo Bonomi.
Giorgio Tonini, 1 giugno 2023

Il leader degli industriali italiani ha infatti colto, a mio modo di vedere, il vero punto critico della politica economica italiana (e indirettamente di quella trentina), in questo delicatissimo passaggio storico: lo squilibrio tra la disponibilità di ingenti risorse (a debito) e la scarsa o nulla propensione del governo Meloni (e, aggiungo io, della giunta Fugatti) alle indispensabili riforme. Un punto critico che, se non affrontato e risolto con la necessaria determinazione e tempestività, rischia di accendere una pesante ipoteca sul futuro del nostro Paese (e della nostra comunità autonoma).

L'Europa ha fatto fronte alle pesanti conseguenze socioeconomiche della pandemia imprimendo un segno fortemente espansivo alla politica di bilancio. Travolgendo la storica impostazione ordoliberista imposta dalla Germania e dagli altri paesi nordici, che escludeva in modo tassativo l'accensione di debito comune, per lasciare alla sola responsabilità degli Stati nazionali l'uso, comunque scoraggiato, di questa leva di politica economica, il programma "Next Generation EU" ha mobilitato risorse, in gran parte finanziate con debito comune, in misura superiore al Piano Marshall. Una svolta "neo-keynesiana" giustamente enfatizzata, nel suo intervento al Festival, da Paolo Gentiloni, che insieme al compianto David Sassoli è stato il principale protagonista italiano di questo nuovo corso europeo.

L'Italia, con 200 miliardi di stanziamenti, è risultato il maggiore beneficiario del programma europeo. Un nuovo corso che non va tuttavia scambiato per il "Campo dei miracoli" di Pinocchio. Fare debito è e resta un rischio. Perché il debito va ripagato, o comunque periodicamente rifinanziato, esponendo il debitore al giudizio dei creditori (i mercati) circa la sua affidabilità. E l'affidabilità del debitore dipende dalle prospettive di crescita che è in grado di presentare in modo credibile. L'Italia rischia grosso, perché ha non solo il record storico del debito pubblico, ma anche quello della bassa crescita. Dunque, come ripeteva continuamente Mario Draghi, l'Italia può sostenere un ulteriore aumento del debito, solo se dimostra di saper innalzare in modo strutturale il tasso di crescita potenziale della sua economia. E questo risultato si può raggiungere solo agendo su due leve, entrambe decisive: destinare le risorse ottenute a debito solo ed esclusivamente agli investimenti in grado di alimentare uno sviluppo di qualità (ambientale, sociale, tecnologica); e mettere mano alle riforme necessarie alla mobilitazione di tutte le risorse di cui dispone (o può disporre) il Paese e che, per un vasto e consolidato insieme di arretratezze, inefficienze e resistenze corporative, è largamente sottoutilizzato.

Si può dire ancora di più: guai se la larga disponibilità di risorse viene bruciata a fini di consenso immediato ed effimero; essa va investita nel creare consenso duraturo attorno ad un ambizioso e impegnativo programma di modernizzazione, che veda coinvolto il più ampio schieramento di forze politiche, sociali, economiche e intellettuali.Nasce da questi presupposti il giusto e opportuno grido d'allarme del presidente di Confindustria: l'Italia, dice Bonomi, sta incassando e spendendo (con fatica) le risorse, ma delle riforme si sono perse le tracce. E senza riforme della giustizia, del fisco e del mercato del lavoro, l'Italia rischia di ritrovarsi con un debito più alto e, cessato l'effetto spinta dei finanziamenti, la solita bassa crescita italiana. Dalla ben più modesta postazione di consiglieri di minoranza in Consiglio provinciale, sono ormai quasi cinque anni che ripetiamo le stesse cose al presidente Fugatti e all'assessore Spinelli. Con intento costruttivo e non polemico. Anche il Trentino deve fare la sua parte per innalzare in modo strutturale il tasso di crescita potenziale della nostra economia. Per stare agli esempi fatti da Bonomi, giustizia e fisco sono competenze prevalentemente statali, anche se qualcosa di più e di meglio si potrebbe fare anche a Trento.

Ma le politiche del lavoro sono per intero competenza nostra. Anzi, in Trentino si può fare di più che nel resto d'Italia, perché quel che altrove è suddiviso tra competenze statali e regionali, da noi è unito sotto l'unica regia della Provincia: lavoro, scuola, formazione professionale, perfino in parte Università e immigrazione. Quindi, se i giovani non trovano lavoro e se ne vanno e le imprese non trovano le risorse umane che cercano e rinunciano a crescere, in Trentino vuol dire semplicemente che non stiamo usando l'autonomia speciale di cui godiamo per fare le riforme prima e meglio dello Stato, ma solo per intermediare le risorse, come fossimo una qualunque autonomia ordinaria, interamente dipendente dai trasferimenti da Roma. La stessa cosa si può dire della nostra poderosa macchina amministrativa provinciale.

Se il peso della burocrazia ostacola la crescita delle imprese e riduce la produttività dell'intero sistema, oltre a pesare sulla qualità della vita di tutti i cittadini, con chi ce la prendiamo se non con noi stessi? Eppure, in cinque anni non si è riusciti neppure a cominciare ad affrontare un tema che a parole tutti dicono essere decisivo.Il problema è che chi ha governato la Provincia in questi anni non ha fatto le riforme, non perché non c'è riuscito, come può sempre capitare, data l'enorme complessità dei problemi. Ma perché ha programmaticamente escluso le riforme dai suoi obiettivi di governo. Chissà, forse anche perché, minoranze consiliari e sindacati confederali a parte, non ha mai trovato un Bonomi sulla sua strada che gli ricordasse la necessità di farle.