«I diritti dei detenuti? Istituzioni da coinvolgere»

 Possibile pensare ai diritti dei detenuti quando imperversano populismo e demagogia? Sì, anche se mettere insieme due parole come diritti e detenuti sembra un ossimoro. «I cittadini devono essere sensibilizzati — dice Antonia Menghini, professoressa aggregata di diritto penitenziario presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento e ora neo eletta Garante dei detenuti —
L. Pisani, "Corriere del Trentino", 6 ottobre 2017

Il lavoro da fare è molto e questo sarà uno degli obiettivi del mio mandato, anche attraverso il coinvolgimento delle istituzioni e della politica». Menghini, esperta di diritto penitenziario, è stata nominata Garante dal Consiglio Provinciale dopo otto anni di attesa.

Di che cosa si occuperà?

«Contribuirò a garantire l’effettivo esercizio dei diritti dei detenuti attraverso la promozione di interventi, azioni e segnalazioni».

In genere, l’idea è che la detenzione sia un’espiazione della colpa per reati commessi. Una punizione.

«L’idea retributiva della pena, e in particolare di quella privativa della libertà, è ancora fortemente radicata. Vanno tuttavia promossi percorsi di rieducazione, peraltro espressamente previsti dal nostro ordinamento. Lo dice anche l’articolo 27 comma 3 della Costituzione. Ritengo che la tutela dei diritti dei detenuti sia funzionale a un pieno riconoscimento della dignità della persona. Il cammino per il riconoscimento e la tutela di tali diritti è stato lungo e difficile e non può dirsi certo concluso. Dopo l’approvazione della legge sull’Ordinamento penitenziario del 1975, la giurisprudenza, soprattutto costituzionale, ha dato un contributo fondamentale in questo senso».

L’Italia però è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani.

«Nel 2013 siamo stati condannati dalla Corte di Strasburgo nel caso Torreggiani, per la grave situazione di sovraffollamento carcerario. L’Italia ha violato l’articolo 3 Cedu che vieta i trattamenti disumani e degradanti, perché nel caso di specie i ricorrenti erano ristretti in una superficie inferiore a tre metri quadrati a testa».

Il sovraffollamento delle carceri e la mancanza di personale penitenziario ha raggiunto livelli di cronicità anche nel carcere di Trento.

«Le difficoltà dovute alla mancanza di risorse sono cosa nota e, solo per fare un esempio, la sorveglianza dinamica che prevede l’apertura delle celle, ha di certo contribuito ad aggravare i compiti del personale. Dati positivi invece sono legati al fatto che oggi abbiamo un direttore che si occupa esclusivamente della struttura di Spini e non è più a scavalco e che è stato nominato un nuovo presidente del Tribunale di sorveglianza. Sono quindi ottimista e confido che si possano trovare delle soluzioni».

In che modo?

«Attraverso un percorso di ampio respiro. Sarà necessario innanzitutto raccogliere le istante di tutti i soggetti interessati e quindi attivare dei processi virtuosi, in stretta sinergia con le varie istituzioni coinvolte, sensibilizzando allo stesso tempo su tutti i problemi i cittadini e le autorità.

Nei programmi politici, economici e sociali a tenere banco è il tema della sicurezza. Come pensa di farsi ascoltare?

«Nessuno, o pochi, considerano i diritti dei detenuti un tema capace di aggregare consenso. I media si concentrano troppo spesso esclusivamente sul problema della sicurezza. Anche su questo piano credo che il garante possa dare il proprio contributo. Solo un dato: in pochi sanno che i casi di recidiva sono dell’80% se la pena si sconta totalmente in carcere, mentre scendono al 19% se si applicano misure alternative».

Un altro tema sensibile è la presenza degli immigrati nelle carceri.

«La percentuale di soggetti stranieri si aggira mediamente intorno 33% quasi in tutte le realtà carcerarie italiane. Diventa dunque fondamentale predisporre un percorso rieducativo che tenga conto delle caratteristiche specifiche e dei bisogni dei soggetti ristretti. La maggior parte degli stranieri necessita di corsi di alfabetizzazione primaria, senza i quali non è immaginabile l’attivazione di alcun percorso rieducativo».

Lei arriva dal mondo universitario. Pensa che la sua preparazione influenzerà il suo lavoro di Garante?

«Credo che gli anni di ricerca in questo specifico settore e le iniziative già promosse a livello nazionale e internazionale possano essere un’adeguata base di partenza in un’ottica costruttiva e mi sembra molto positivo che le competenze dei docenti e degli studiosi universitari vengano messe a servizio del territorio».