Il nuovo Senato, perché dico sì

«Il Senato dovrà essere trasformato in una camera delle regioni, composta da esponenti delle istituzioni regionali che conservino le cariche locali e possano quindi esprimere il punto di vista e le esigenze della regione di provenienza. Il numero dei senatori (che devono essere e restare esponenti delle istituzioni regionali) dipenderà dalla popolazione delle regioni stesse, con correttivi idonei a garantire le regioni più piccole... I poteri della camera delle regioni saranno diversi da quelli dell'attuale Senato, che oggi semplicemente duplica quelli della Camera dei deputati. Alla Camera dei deputati sarà riservato il voto di fiducia al governo. Il potere legislativo verrà esercitato dalla Camera delle regioni per la deliberazione delle sole leggi che interessano le regioni, oltre alle leggi costituzionali».
La citazione sembra tratta da un discorso di Matteo Renzi, a sostegno della riforma in discussione a Palazzo Madama. Giorgio Tonini, "L'Adige", 13 luglio 2014



 E invece la citazione è presa da un testo di quasi vent'anni fa: le tesi programmatiche dell'Ulivo, scritte nel 1995 dai famosi «comitati Prodi», discusse in centinaia di assemblee di cittadini in tutta Italia, portate a bordo dei due pullman di Romano Prodi e Walter Veltroni, con i quali il centrosinistra vinse le elezioni e andò per la prima volta al governo del paese. Già allora si era capito che, così com'è congegnato, il nostro sistema parlamentare non può funzionare. E che davanti a noi abbiamo due strade: o lo abbandoniamo in favore di un sistema presidenziale; oppure, se vogliamo restare nell'alveo del parlamentarismo, che è il modello europeo di gran lunga prevalente, dobbiamo riformarlo in profondità.

La nostra repubblica parlamentare potrà funzionare meglio e quindi riconquistare la fiducia oggi in larga parte perduta dei cittadini, solo se riuscirà a ristrutturarsi, dotandosi di una sola camera politica, eletta con una legge maggioritaria che consenta ai cittadini di decidere chi debba governare, in modo da dare stabilità al governo del paese, e di una camera federale, che funzioni da contrappeso pluralista e responsabilizzi le istituzioni regionali sul piano nazionale. Del resto, è così che, pur con diverse variazioni sul tema, funzionano tutte le altre grandi democrazie europee.

Se tutto va bene, se la sentenza su Ruby non farà cambiare idea a Berlusconi, se Calderoli riuscirà a tenere la Lega sulla linea riformista e federalista adottata in commissione, se i grillini non esagereranno con l'ostruzionismo... insomma se tutti i pianeti si allineeranno al punto giusto, forse nei prossimi giorni, questa proposta che da vent'anni attende di essere realizzata, sarà votata dall'aula del Senato. Niente descrive il nostro paese, lo scollamento tra il suo sistema politico e istituzionale e la vita concreta dei cittadini, meglio della protesta di chi (perfino nel Pd) dice che una riforma della quale si parla, sulla quale si studia e si dibatte e alla quale si lavora da almeno vent'anni, sarebbe imposta con una forzatura autoritaria del governo Renzi, all'insegna dell'improvvisazione, strozzando il dibattito e impedendo una discussione serena. Se non ci fosse da piangere, verrebbe da ridere. Comunque sia, è difficile prendere sul serio le obiezioni sui tempi e i modi della riforma. Diverso è il caso delle obiezioni sui suoi contenuti, che sono sempre legittime e con le quali è non solo doveroso, ma anche utile confrontarsi.

La prima obiezione è quella di chi dice che così avremo un Senato di nominati, anziché eletti dai cittadini. Una tesi molto discutibile: presidenti di regione (o, nel nostro caso, di provincia autonoma) e sindaci non sono meno, ma semmai più «eletti», più legittimati e rappresentativi, degli attuali parlamentari. Guardando a casa nostra, oggi il Trentino Alto Adige elegge ben 17 parlamentari (10 deputati e 7 senatori), che si aggiungono ai 70 consiglieri regionali-provinciali e agli innumerevoli sindaci. Con la riforma, alle elezioni politiche eleggeremo 10 deputati e manderemo invece in Senato, a svolgere una funzione del tutto diversa (e anche con tempi e modi totalmente diversi) da quella dei deputati e degli attuali senatori, i due presidenti delle province autonome e due sindaci. La democrazia non solo non ne soffrirà, ma ne trarrà giovamento, perché sarà meglio organizzata, potendo contare su due rami del parlamento che svolgono funzioni diverse, invece di fare due volte lo stesso lavoro.

La seconda obiezione riguarda il tasso di federalismo o di centralismo contenuti nella riforma. In molti ambienti nazionali, si paventa un eccesso di federalismo. In particolare, si guarda con diffidenza ad un rafforzamento dei poteri in mano a quello che impietosamente viene definito il segmento peggiore del ceto politico nazionale, ossia i consiglieri regionali. Da noi si teme l'opposto, un ritorno di centralismo, come dimostrerebbe la riscrittura dell'articolo 117 della Costituzione, che riporta in capo allo Stato alcune competenze fin qui riconosciute alle regioni. Al di là delle opposte propagande, il percorso parlamentare della riforma ha cercato e in gran parte trovato un punto di equilibrio: per un verso, rafforzando la governabilità del paese nella sua imprescindibile dimensione nazionale, tanto più necessaria in una fase di auspicata accelerazione del processo di integrazione europea; per altro verso, includendo e responsabilizzando nella governance nazionale del paese sia regioni che comuni: basti pensare, per fare solo un esempio, che la Costituzione (e con essa molte leggi di sistema) non potrà più essere cambiata senza il consenso pieno dei poteri locali, attraverso il nuovo Senato, che eleggerà da solo (e non più insieme alla camera) due dei quindici giudici costituzionali.

Si tratta di innovazioni profonde, da lungo tempo promesse e a lungo maturate e ponderate. Ora si tratta di metterle finalmente in atto. Approvata la riforma costituzionale (che poi dovrà passare al vaglio della Camera e a quello del referendum popolare), il Senato passerà a occuparsi della nuova legge elettorale della Camera, cercando di salvaguardare i pregi del cosiddetto «Italicum», a cominciare dal ballottaggio per il premio di maggioranza, e di porre rimedio ai suoi difetti: le troppe soglie di sbarramento e le modalità, certo migliori di quelle del «Porcellum», ma non ancora convincenti, di elezione dei deputati.