Autobus, moralità, politica

Da brava matricola mi reco al Senato per entrarvi per la prima volta da rappresentante del popolo, dopo una notte insonne e piena di pensieri. Salgo sull’autobus e come prima cosa vado a timbrare il biglietto.
Francesco Palermo, 16 marzo 2013

La macchinetta vicino alla porta anteriore non funziona, così mi avventuro in uno slalom tra persone stipate per raggiungere la timbratrice posta in fondo al mezzo. Questa fortunatamente funziona e mi tranquillizzo. Dopo due fermate sale il controllore. Anzi, i controllori: sono in tre, entrano con un’azione da corpi speciali di polizia, uno da ogni porta (compresa quella centrale, che servirebbe solo per scendere) e stringono progressivamente i passeggeri in una morsa.

Con la mano mi sincero che il mio biglietto sia al suo posto nella tasca, e mi rassicuro sentendo al tatto quel cartoncino ruvido. Inconsciamente ero stato intimorito anch’io, pur sapendo di essere in regola. Sull’autobus si scatena il panico. Alcuni provano a scendere e un controllore deve trattenere un ragazzo per la maglia, ci sono scene concitate. Altri cercano di avvicinarsi alla timbratrice (molti a quella anteriore, mostrando di non averci provato prima, altrimenti avrebbero saputo che era rotta).
Una signora dall’aria distinta che ha la ventura di trovarsi vicino all’obliteratrice posteriore riesce a timbrare con destrezza approfittando della confusione e poi fa finta di nulla guardando distrattamente dal finestrino. Molti iniziano a protestare perché l’obliteratrice anteriore non funziona, e alcuni la mettono sui princípi: è giusto chiedere ai cittadini di timbrare quando la macchinetta non funziona? Ed è giusto chiedere loro un supplemento di fatica (non da poco, lo posso assicurare per esperienza diretta) per attraversare tutto l’autobus urtando persone irritate e sudate e rischiando di scivolare sul fondo bagnato per arrivare all’obliteratrice posteriore e fare il proprio dovere di bravi cittadini?

Ma nessuno di quelli che filosofeggiano ci ha minimamente provato. Intanto fioccano multe, qualche protesta, animate discussioni. E il bus è costretto a fermarsi e ad accumulare ritardo. Qualcuno aveva scritto che il mestiere meno conosciuto in Italia è quello di cittadino. Avevo assistito ad un analogo controllo esattamente una settimana prima sul tram a Strasburgo. Lì si oblitera prima di salire, e le macchinette funzionano. I controllori erano saliti sul tram comportandosi da controllori e non da teste di cuoio, dicevano “bonjour” prima di chiedere il biglietto, e tutti i passeggeri erano in regola. L’operazione si è svolta in tutta tranquillità e in pochi minuti. Ed era Strasburgo, non Stoccolma, quindi non vale nemmeno la sana vecchia spiegazione della superiorità genetica di alcune razze rispetto ad altre…

Sceso dal bus per continuare a piedi per l’ultimo tratto, mi chiedo se la politica possa cambiare queste cose, se sia suo dovere farlo, e se sì come. Se la classe politica sia lo specchio della società e se nel contestarla non la stiamo invece usando come il ritratto di Dorian Gray, che si abbruttisce di tutte le perversioni del suo protagonista lasciando questo bello e immacolato. Qual è la causa e quale l’effetto di questi comportamenti e di un’etica pubblica inesistente? E se è vero che stiamo andando a costituire il Parlamento più rinnovato, più giovane, più istruito e con più donne dall’inizio della Repubblica, potrà questo Parlamento essere migliore della società che dovrebbe rappresentare?

O forse è molto peggiore, visto che sembra essere composto da dogmatici, esecutori di ordini, urlatori, e da un discreto numero di incompetenti, e che probabilmente finirà col sciogliersi molto presto per incapacità di formare un governo? Come si collegano società e istituzioni per ridare vita a un contratto sociale, che in Italia si è drammaticamente rotto, non solo tra cittadini e istituzioni ma anche tra i cittadini? E’ la politica, almeno quella alta e fatta con le migliori intenzioni, lo strumento per ricostruire la società? O è la società che deve ricostruire la politica cancellandone gli abbruttimenti? E qual è il filo (se ancora esiste) che può garantire il raccordo tra società e istituzioni? Le riforme? La legge elettorale? La democrazia partecipativa? O la democrazia diretta, senza mediazione politica? Rivedo la scena del bus e mi atterrisce il pensiero che quei “cittadini” possano decidere su tutto. Ma subito mi tornano alla mente anche le scene delle risse in parlamento e il lancio di mortadella alla camera di qualche anno fa, e perdo la fiducia anche nella rappresentanza. Purtroppo non si può fare una “bad company”, di società e di politica, dove mettere i “debiti” e costituire una “good company” del nuovo contratto sociale. La crisi sociale, ahimé, è assai più difficile da risolvere della crisi economica, anche perché ne è l’origine. I cupi pensieri si diradano alzando lo sguardo sulla meraviglia dei palazzi. Sono arrivato.

Guardando tanta bellezza recupero fiducia pensando che i capolavori architettonici sono fatti da tanti piccoli pezzi, e che qualcuno deve incominciare a metterli uno vicino all’altro, con umiltà ma nella consapevolezza che servono a creare qualcosa di più grande. E mi torna in mente la vecchia storia dell’operaio che lavorava al cantiere della cattedrale di Colonia: mentre i suoi colleghi si lamentavano del duro lavoro, lui diceva che stava contribuendo a costruire una delle più belle chiese del mondo. “Che sta a cercà, dottò?”, mi urla un commesso davanti alla porta. Assorto nei pensieri stavo entrando a Palazzo Madama con il mio ideale e pesante mattoncino. Prima di farlo devo però identificarmi, registrarmi e farmi prendere le impronte digitali. Dati i precedenti, forse è giusto così.