Referendum. E adesso?

Il giorno dopo il referendum in Veneto e Lombardia è tutto un profluvio di dichiarazioni. A scorrerle viene da sorridere per il modo plateale con cui ognuno tira acqua al suo mulino e prova a mettere il cappello sul risultato. È normale, per quanto irritante. I referenda erano giuridicamente inutili. Tutto ciò che i quesiti chiedevano è già possibile in base alla costituzione (e per Belluno in base allo statuto regionale).
Francesco Palermo, "Trentino", 24 ottobre 2017

 

Tanto che, in polemica con la decisione delle due regioni a guida leghista di ricorrere al referendum consultivo, l’Emilia Romagna ha attivato a tempo di record la medesima procedura e ancor più rapidamente il governo ha aperto il tavolo di trattativa. I quesiti referendari erano inoltre piuttosto generici: la Lombardia chiedeva il mandato politico a trattare su tutte le competenze delegabili a sensi della costituzione (ossia tutte le competenze concorrenti e tre significative competenze esclusive dello stato), e il Veneto non ha previsto alcun richiamo ai contenuti della futura trattativa. Richiedere un referendum senza specificare su cosa suscita perplessità, specie alla luce della costante giurisprudenza costituzionale che richiede chiarezza del quesito.

Ma l’obiettivo era solo politico. Senza il ricorso al referendum le procedure per negoziare il trasferimento alle regioni interessate di alcune competenze si sarebbero certo potute attivare, ma non ne avrebbe parlato nessuno. La disposizione costituzionale che consente la differenziazione delle competenze tra le regioni ordinarie esiste dal 2001, e da allora diversi tentativi sono stati compiuti, e sono tutti falliti. Anche a causa della complessità procedurale per l’approvazione della legge rinforzata di trasferimento delle competenze che il Parlamento deve approvare a maggioranza assoluta recependo i contenuti dell’intesa tra Regione e Governo. Pertanto, lo svolgimento di un referendum preventivo è stato ritenuto l’unica via per assicurare ai governi regionali la forza politica sufficiente a condurre la trattativa. L’eterogenesi del fine come unica modalità effettiva per il raggiungimento del fine originario…

La parte interessante inizia solo adesso. Perché è da adesso che bisognerà cominciare a parlare di contenuti e rispondere alle domande che si pongono.

Prima domanda: quanto tempo richiederanno e dove condurranno le trattative tra le due regioni e il governo? Un nuovo nulla di fatto rappresenterebbe la morte del meccanismo previsto dalla costituzione e probabilmente anche la fine del disegno di regionalismo asimmetrico italiano. Un successo, per contro, dimostrerebbe che solo usando l’arma “nucleare” (potente e impropria) del referendum si possono ottenere risultati, producendosi così un’inevitabile rincorsa a consultazioni analoghe, con tutti i rischi connessi di delegittimazione delle istituzioni rappresentative e plebiscitarizzazione dei processi decisionali.

Secondo: gli esiti dei referenda saranno usati come strumento di lotta politica in vista delle imminenti elezioni nazionali? La banalizzazione in chiave politica ed elettorale dei temi territoriali è stata purtroppo una costante in Italia, ben prima dell’avvento della Lega. Ma proprio questa tentazione di strumentalizzare le questioni territoriali per finalità politiche contingenti ha impedito che la questione regionale diventasse davvero un tema preso sul serio nel dibattito politico e culturale italiano.

Terzo, e soprattutto: questi referenda sapranno mettere in moto una discussione seria sulle modalità di governo di questo Paese? La consapevolezza della profonda diversità tra le diverse regioni italiane, sotto ogni punto di vista, non si è finora mai tradotta in una seria valutazione dell’opportunità di un assetto territoriale in grado di rispondere a tali diversità. Il potere centrale ha sempre seguito il dogma dell’uniformità delle regole, ignorando come regole identiche calate in contesti assai differenziati producano esiti assai diversi, quindi finendo per ottenere il contrario di quanto voluto. E tuttavia questo atteggiamento è stato sempre supportato da un sistema politico non territorializzato e da un contesto culturale e accademico assai centralista, e ultimamente rafforzato da piccoli e grandi scandali regionali. Mancando una cultura autonomistica, il tema è stato finora soggetto a mode e al clima politico del momento.

Dalle risposte che verranno dipenderà non solo e non tanto il trasferimento a Lombardia e Veneto di singole ulteriori competenze, ma il futuro del sistema territoriale italiano. Un tema aperto dai tempi dell’unità e da allora mai risolto. Nel giro di poche settimane capiremo se questi referenda sono un’ulteriore tappa della farsa territoriale italiana oppure un’occasione fondamentale di rilancio della governance territoriale.