Il disertore torturato e il gay: vite di migranti

La diversità non è ammessa. C’è il carcere per giovani come lui, o peggio, in alcuni casi, per gli uomini sposati, la lapidazione. Nel suo Paese, in Nigeria, essere gay è un reato. Nel 2014 il presidente della Repubblica, Jonathan Goodluck, ha promulgato il «Same-Sex Marrige (Prohibition) Act» che prevede il carcere da 10 a 14 anni per gli omosessuali.
D. Roat, "Corriere del Trentino", 8 giugno 2017

 

Lui non lo sa, ma sa che è proibito. Vive la sua diversità in modo clandestino per anni, poi viene scoperto dai vicini con il fidanzato. Vengono picchiati, trascinati al cospetto del capo villaggio, Odionwere, per essere giudicati, lui riesce a fuggire, mentre il fidanzato viene giustiziato da alcuni «community vigilante».

È il 31 dicembre, l’ultimo giorno del 2013. Da qui inizia la lunga fuga del ventenne. Un viaggio disperato, attraverso la Libia, poi in Italia, a bordo dei barconi della speranza. Oggi ha 23 anni, ma non ha un futuro. La Commissione territoriale di Verona il 23 febbraio 2016 ha respinto la sua richiesta per ottenere lo status di rifugiato. Non può tornare nel suo Paese e ora la sua speranza è nella giustizia. Attraverso il suo avvocato, Gennaro Romano, che sta seguendo altri 53 migranti, ha presentato ricorso in Tribunale. Ma quella del ventenne nigeriano è solo una delle tante storie simbolo dell’immensa tragedia del Mediterraneo e dei tanti ricorsi che stanno ingolfando i palazzi di giustizia.

Sono 291 i ricorsi pendenti per il 2017 in Tribunale a Trento, il 60% viene accolto, mentre il numero dei dinieghi da parte della Commissione raggiungono la soglia del 70% (il dato è stato reso noto da Piazza Dante nei giorni scorsi). Serve forse una riflessione.

La storia del giovane nigeriano è esemplificativa di cosa accade in tanti Paesi dove i diritti sono solo un’utopia. Sfogliando tra le pagine delle vite di migranti, si scopre anche la storia di un altro giovane nigeriano, costretto ad arruolarsi perché era l’unica opportunità per guadagnare. Justin (il nome è di fantasia ndr) è cresciuto a Lagos sulla costa sud- occidentale del Paese. È la povertà estrema che lo spinge ad avvicinarsi agli ambienti della politica entrando a far parte del partito Democratico Popolare. Ma è solo l’inizio della sua «prigionia». Il giovane viene infatti assoldato tra le fila della milizia Oudua People’s Congress (Opc) composta soprattutto da persone di etnia yoruba, diventata il simbolo di violenze e repressioni sanguinarie. Justin non ce la fa più, insieme ad altri compagni durante una spedizione fugge. Diventa un disertore. C’è la pena di morte per gli «infedeli». Tre miliziani vengono fucilati, lui viene legato per le caviglie, torturato con il fuoco e bastonato. Lo credono morto, ma riesce a fuggire. È il 2011, da allora sono trascorsi anni, raggiunge le coste sicule nel 2015, poi la speranza dell’asilo, rifiutata nel luglio 2016.

Quella di Justin è una storia terribile, ma è da meno quella di un ventenne pakistano, cresciuto nel villaggio Mian Dhairi, finito nel 2011 in una scuola, l’unica gratuita, a cinque ore di distanza da casa, dove «insegnavano a uccidere». I ragazzi venivano costretti a seguire lezioni di politica antigovernativa e a guardare filmati di attentati terroristi. La fuga per lui è stata l’unica alternativa, come per un giovane agricoltore del Bangladesh inseguito dai creditori dopo che l’alluvione aveva distrutto tutto nel suo villaggio.