Cinque ragioni per un grande partito

1) Una delle ragioni della strutturale debolezza della politica italiana è il continuo farsi e disfarsi dei partiti. Questo processo non ha eguali in Germania, Francia, UK, USA, insomma nelle grandi democrazie occidentali. A chi è utile continuare a fare e disfare i partiti? Ai singoli e ai gruppi politici che, migrando da un partito all’altro, salvano se stessi.
Michele Nicoletti, 1 novembre 2015

 

Alle burocrazie e agli apparati pubblici che, nel continuo mutare della politica, si presentano come il vero elemento di continuità del potere pubblico. Alle lobbies esterne che, nel frullatore della politica italiana, riescono più agevolmente a imporsi. Non è invece utile a un rafforzamento del potere dei cittadini e più in generale della politica, né sul fronte interno, né – tanto meno – sul fronte internazionale, dove si assumono le decisioni e dove la debolezza dei partiti italiani spesso condanna il nostro Paese all’irrilevanza. Disfare un partito appena nato che ha conseguito importanti successi e governa il Paese è irragionevole.

2) L’organizzazione dello schieramento progressista nel PD, ossia in un “partito democratico” e non “socialdemocratico”, è stata il frutto di una lunghissima e straordinaria gestazione nel corso della quale sono state sperimentate forme alternative come le coalizioni di partiti. Queste ultime – si pensi all’Ulivo – hanno prodotto ottimi risultati (vittorie elettorali, significative e incisive esperienze di governo riformatore), ma hanno avuto durata breve, perché il loro baricentro risultava in capo alle segreterie dei partiti. Gli stessi protagonisti di quelle stagioni hanno sempre auspicato la nascita di un grande partito popolare di centrosinistra, appunto il PD. Ciò non ha escluso il ricorso alle coalizioni (nel 2008 e nel 2013), ma ha dato ad esse un punto di stabilità. Dividere ora il PD in due tronconi significativamente grandi vuol dire o indebolire il centrosinistra o tornare alla instabilità precedente. Non solo: anche dal punto di vista elettorale è del tutto da dimostrare che un centro-sinistra diviso raccoglierebbe più voti di un centrosinistra unito, anche se è serio il tema del crescente astensionismo.

3) Quando si è dato vita al PD, si sono compiute scelte fondamentali relative alla piattaforma ideologica (democratico e non socialdemocratico), alla forma partito (partito di elettori e iscritti e non solo partito di iscritti e dunque partito aperto le cui cariche sono contendibili dal basso), al suo ruolo nelle istituzioni (coincidenza segretario-premier al servizio di una democrazia governante all’altezza delle sfide internazionali). Tali scelte sono state discusse ma sempre confermate da ogni appuntamento congressuale. Tali scelte iscrivono chiaramente il PD entro il quadro di una democrazia competitiva in cui al vincitore di un congresso è data la responsabilità di guidare il partito e alla minoranza, in un quadro di leale collaborazione, il compito di costruire un’eventuale alternativa in vista di un ulteriore congresso. Nel frattempo essa dovrebbe contribuire anche dialetticamente al rafforzamento non all’indebolimento del partito. L’idea di spaccare il PD in seguito a una sconfitta congressuale è certamente legittima sul piano politico, ma assai poco rispondente a un’idea di democrazia liberale competitiva in cui si riconosce agli elettori il compito di determinare l’indirizzo politico. Assomiglia di più all’idea di una democrazia paternalistica in cui non l’elettore ma un gruppo ristretto si sente interprete più autorevole dell’elettore stesso del “bene comune” del partito. Parte della tradizione politica italiana – giacobina, cattolica e comunista – rigurgita di tale atteggiamento mentale. Ma a dire il vero ciò ha ben poco a che fare con la cultura di una democrazia competitiva.

4) Si dice che la scissione amichevole si rende necessaria perché le attuali politiche del PD sarebbero di centro o addirittura di destra e vanno controbilanciate a sinistra. È certo legittimo discutere, criticare, esigere processi partecipativi e proporre strategie alternative, ma prima di liquidare il presente si dovrà almeno ammettere che si possono dare idee plurali di sinistra (ad esempio la riforma costituzionale ed elettorale, il jobs act e la buona scuola sono considerati dei veri attentati alla democrazia e ai diritti fondamentali per i critici, mentre per i sostenitori sono provvedimenti che aumentano il potere reale dei cittadini). Si dovrà anche considerare – con valutazioni di impatto – quali politiche di sinistra “tradizionale” sono state efficaci e vincenti in passato. Si dovrà riflettere se un centro-sinistra diviso in due partiti sarebbe poi in grado di fare politiche alternative o si limiterebbe a una spartizione di ambiti come spesso accade in coalizione. Ci si dovrà infine chiedere quanta e quale sinistra è possibile nell’Europa di oggi, in cui nella maggioranza dei Paesi la sinistra è all’opposizione o in affanno. Credo che una volta affrontati seriamente tutti questi interrogativi si vedrebbe che la scissione è irragionevole.

5) Infine: si dice che il PD non solo fa politiche di centro ma si è snaturato in Partito della Nazione. Mi pare che il PD abbia chiaramente definito la sua natura di partito progressista aderendo al PSE in Europa e, nel mondo, allo schieramento dei democratici e progressisti in modo inequivocabile. Non mi piace l’espressione “partito della nazione” e ritengo sia da evitare. Considero però il richiamo a questa espressione un richiamo non a una collocazione, ma a una funzione storica del partito: un partito al servizio di un nuovo “risorgimento” nazionale così come inteso da Gobetti, Gramsci, De Gasperi. Capisco anche che in un’Europa di risorgenti nazionalisti e sciovinismi possa essere essenziale non regalare il tema della “nazione” alla destra per evitare che faccia rinascere nuovi micidiali demoni. In questa linea c’è una tradizione democratica – si pensi a Ciampi – da non ignorare. Si può però esprimere tutto questo senza parlare di “partito della nazione” considerati gli equivoci che ingenera. E si deve invece oggi proporre una assai più vigorosa riaffermazione del PD come partito radicalmente “europeista”. A chi teme che il Partito della Nazione sia la mutazione genetica del PD da partito di centrosinistra a partito del centro, palude indifferenziata che imbarca i transfughi della destra, dico che non è con la scissione che si risponde ma portando il tema della natura del PD nel cuore della discussione interna e un domani nel congresso.  Si vedrà che gli equivoci saranno fugati e che il popolo del centrosinistra, mobilitato su questo tema, si pronuncerà in modo chiaro per mantenere il PD fedele alla sua natura di partito democratico e progressista, partito di centrosinistra dentro la grande famiglia dei democratici e socialisti europei, alternativo al centrodestra